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sabato 27 dicembre 2008

Quando cercare "la verità" significa morire...

Il bilancio è disarmante. Ed è ancora più spaventoso quando si muore per amore del mestiere, per il rispetto del lettore da informare. «Non sarò mai abbastanza grato alla cronaca, nella quale anch’io mi sono formato, perché chi non è stato cronista non sarà mai un vero giornalista». Sono parole di Indro Montanelli. Le ha scritte nel contesto di un ampio articolo pubblicato in prima pagina dal Corriere. Era il 13 agosto del 1998.
Ora, noi non sapppiamo se queste poche righe siano state una sorta di testamento professionale. E' certo, comunque, che è un omaggio a quel giornalista che ha trascorso in cronaca parte della propria vita. Un dono a chi è preso dalla passione di raccontare i mali della società, rischiando, qualche volta, di finire in un mare di guai. Insomma, c’è il pericolo di restare avviluppato in una rete dalla quale non è facile venirne fuori. E questo accade soprattutto a chi, per mestiere, è costretto a occuparsi di vicende scellerate, che, spesso, hanno a che fare con la malavita organizzata.
Il lutto stretto non lo portano ormai più, ma hanno ancora i volti tristi le vedove e gli orfani di cronisti come Mauro De Mauro, Pippo Fava, Mario Francese e Beppe Alfano. Qualcuno non c’è riuscito a sopportare la tragedia familiare e l’ha fatta finita. A giudicare dalle ultime indagini su questi delitti, De Mauro, Fava, Francese e Alfano erano arrivati a una verità. Avevano capito da quale parte stava il marcio e avevano deciso di denunciarlo. E lo avevano fatto alla vecchia maniera, avevano camminato a lungo, avevano parlato con gli investigatori, avevano ricostruito storie per lunghi anni rimaste nelle pieghe della cronaca, avevano riempito pagine e pagine di appunti. Si erano affidati alla memoria, avevano confrontato le interviste e poi avevano deciso di scrivere.
Di mafia si muore, è un viaggio senza ritorno, si dice. Lo sappiamo. E lo sapevano pure De Mauro, Fava, Francese e Alfano. E lo sapevano anche tutti quelli che hanno provato a combattere Cosa nostra: magistrati e investigatori, al pari dei giornalisti, tutti alla ricerca della verità. Beppe Alfano, che aveva la passione di raccontare i mali della sua città, andava solo alla ricerca di storie marce. E lo faceva pur sapendo di rischiare, nella consapevolezza che un giorno o l’altro sarebbe finito in un mare di guai, lungo una pista senza ritorno. È il prezzo che si paga quando si va a caccia di obiettività di giudizi, nel rispetto della cronaca e del lettore da informare. Il cronista è così, perché è il suo modo di vivere, di guardarsi intorno, è un entusiasta di questo strano mestiere. (Angelo Vecchio/Fuoririga)


Fare il capo provincia di Cosa Nostra, anche se per un limitato periodo di tempo, non è facile. Si devono tenere a mente tanti nomi, i volti e i paesi dei “picciotti”. A complicare ogni cosa, in Sicilia in generale, e ad Agrigento in particolare, si ci mettono, poi, pure le “inciurie”. Quei sopranomi che non sai mai se sono il cognome vero o l’alias della famiglia. Così è stato anche per il racalmutese Maurizio Di Gati, ex reggente dell’Agrigentino e attuale collaboratore di giustizia.
Davanti ai magistrati della Dda, in uno dei tanti verbali da lui stesi, è sembrato più volte in difficoltà. Non si è confuso, non avrebbe operato nessun fraintendimento, Di Gati, ma con il cognome “Vento” ha indicato, più volte, due diversi soggetti. Di Gati non ha fatto altro che “inciampare”, almeno in un caso, in una “incuria”. “C’è un certo Pasquale Vento di Siculiana che lo badava nella latitanza … è un pecoraio” – Di Gati sta ricostruendo la fitta rete dei fiancheggiatori del superlatitante empedoclino Gerlandino Messina.
Queste dichiarazioni hanno portato lo scorso ottobre alla maxi retata “Marna” con 13 arresti. In data 19 gennaio 2007, Di Gati, dichiara: “I facenti parte degli associati mafiosi di Siculiana sono Roberto Renna, Pasquale Vento che ha una masseria di ovini …. Poi ho conosciuto tramite Stefano Fragapane tale Pasquale Vento, fratello di Angelo, quest’ultimo residente in Belgio … e questi sono vicini a Filippo Sciara. Questo Pasquale Vento era il tramite per i soldi che io davo alla famiglia di Sciara (detenuto all’ergastolo per mafia) per la detenzione ….L'ho conosciuto prima di incontrarmi con Gerlandino Messina – dice Di Gati - . Me lo portò Stefano Fragapane per dargli i soldi. La moglie di Filippo Sciara (detenuto all'ergastolo per mafia) è figlioccia di Pasquale Vento.
E' un uomo di onore di Siculiana, come il fratello Angelo. Quest'ultimo e un racalmutese costituiscono Cosa Nostra in Belgio. A me lo disse Salvatore Fragapane che questo Vento con la famiglia di Cosa Nostra del Belgio si occupa del traffico di armi dal Belgio. Attraverso lui Fragapane faceva avere i soldi alla moglie di Sciara. Questo Pasquale Vento si incontra anche con Gerlandino Messina, me lo diceva lui stesso. Vento lavora alla forestale o all'Eas". Il Pasquale Vento, 60 anni il prossimo 24 marzo, di cui narra Di Gati è stato arrestato dai carabinieri del reparto operativo di Agrigento lo scorso 7 gennaio.
E’ accusato d’aver fatto parte dell'entourage del superlatitante Gerlandino Messina. Ma ci sarebbe anche un altro Pasquale “Vento” che avrebbe fatto cadere in difficoltà Di Gati. E’ colui che Di Gati stesso ha scoperto avere un altro cognome davanti agli album fotografici della Polizia: è Pasquale Di Salvo, 52 anni, arrestato con il blitz “Marna”. E’ il 26 settembre del 2007 e parlando degli avvicinati a Gerlandino Messina, il racalmutese dice: “… io li ho trovati nella casa di Pasquale, quello che io chiamo Vento, che poi non si chiama Vento …ma Di Salvo”.
(Concetta Rizzo/Fuoririga)

Mario Francese nacque a Siracusa il 6 febbraio 1925, ma si trasferì a Palermo dopo il ginnasio per completare gli studi liceali. Dopo il diploma si iscrisse alla facoltà di ingegneria dell’Università di Palermo, ma per rendersi economicamente indipendente dalla sua famiglia comincia a lavorare come telescriventista all’Ansa. Ben presto, però, viene fuori la sua vera passione: il giornalismo. Comincia a scrivere per l’Ansa e diventa corrispondente de «La Sicilia», occupandosi di cronaca nera e giudiziaria.
Il 1° gennaio 1957 entra alla Regione come cottimista, ma poi viene nominato capo ufficio stampa dell’assessorato ai Lavori pubblici. Dall’ottobre 1958 l’assunzione alla Regione diventa definitiva e il 30 ottobre si sposa con Maria Sagona, una ragazza di Campofiorito, un piccolo paese a poca distanza da Corleone. Dal matrimonio nascono ben quattro figli maschi. Alla fine degli anni ’50 Girolamo Ardizzone lo chiama al «Giornale di Sicilia» e, dopo un po’ di tempo, gli affida la cronaca giudiziaria, dove ben presto diventa una delle firme più apprezzate ed uno dei più profondi conoscitori del fenomeno mafioso.
Nel 1968, dovendo scegliere tra il posto alla Regione e il Giornale di Sicilia», non ha esitazioni: sceglie il giornale, diventando ben presto giornalista professionista. Dalla strage di Ciaculli (1963) all’omicidio del colonnello Russo (1977), non c’è fatto di cronaca giudiziaria di cui Mario Francese non si occupi. La mafia lo uccide con cinque colpi di pistola sotto casa sua, dov’era tornato dopo una dura giornata di lavoro.
«… Quella sera del 26 gennaio 1979, c’ero io, cronista agli inizi, e di fronte a me un cadavere, il primo che vedevo: Mario Francese, mio padre», scrisse il 3 settembre 1999vsul «Giornale di Sicilia» il figlio Giulio. Un articolo «liberatorio», scritto dopo vent’anni. «Quella sera – scrisse ancora Giulio Francese – cinque pallottole hanno spento la sua voce e in parte anche la mia. Da allora non ho più pronunciato la parola papà, e sento forte il bisogno di farlo ora…».
(Dino Paternostro/Fuoririga)

Interessanti testimonianze su cosa significhe realmente e concretamente la lotta alla mafia.. la difficoltà di denunciare i propri aguzzini, il rischio sullo scrivere ed informare su un tema alquanto complicato e da prendere con le molle, le pressioni (intimidazioni?) politiche, di altri colleghi, di parenti possono divenire più o meno palesi ed amicizie durature possono vacillare quando si intraprendono certe tematiche... giornalisti ucisi per aver fatto il proprio mestiere, imprenditori sotto scorta ed abbandonati da tutti per non aver voluto piegarsi al giogo mafioso, la difficoltà di poter fare cronaca liberamente e senza rischi. La mafia non è solo un problema socio-economico ma soprattutto culturale, quando non si acetta tutto passivamente, quando non si coglie più il confine tra i propri diritti ed i favori, quando non c'è più la possibilità di aprire gli occhi e guardare con fiducia a futuro... tutto questo è mafia.. è pressione...è substrato culturale... e rimanere soli non è difficile quando anche lo Stato a volte si dimentica di te... senza ombra di dubbio però noi tutti abbiamo dimostrato con i fatti che una comune ribellione è possibile oltrechè necessaria, per poter rialzare la schiena e vivere dignitosamente senza il peso del malaffare sulle spalle.
"La mafia è una montagna di merda" e nessuno, mai più, vuole vivere nella fogna.

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