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venerdì 24 ottobre 2008

Beppe Alfano: la verità non deve mai morire

I tre proiettili esplosi con la calibro 22 lo centrarono mentre era al posto di guida della sua Renault 9, nella centralissima via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto. L’auto era leggermente accostata al margine destro, con le luci accese e il cambio in folle. Erano da poco passate le dieci di sera quando il giornalista Beppe Alfano fu ammazzato. Gli ingredienti sono di una storia di mafia in piena regola: un cronista rompiscatole, corrispondente del quotidiano catanese La Sicilia ed una cittadina di quarantamila abitanti in mano a spregiudicati uomini d’affari, e nessun testimone oculare. Da quell’8 gennaio del ‘93 sono trascorsi nove anni. La giustizia ha fatto il suo corso con alterne vicende. Ben quattro i processi celebrati ma nessuna verità definitiva. Certo, esiste un mandante, Giuseppe Gullotti, 41 anni, inteso l’avvocaticchio, per un passato da studente in giurisprudenza, capo mafia della zona, la Cassazione il 23 marzo del 1999, l’ha condannato a 30 anni di reclusione, ma non il sicario che ne portò a compimento il mandato. L’ultimo tassello lo incastra il tribunale di Reggio Calabria, dove la Corte d’Assise d’Appello, ha assolto lo scorso 17 aprile, il presunto esecutore materiale dell’omicidio, il barcellonese Antonino Merlino, 33 anni, che era stato condannato dai giudici di Messina a 21 anni e 6 mesi. Pena in seguito annullata con rinvio dalla Cassazione, che ne disponeva il giudizio a Reggio Calabria. Una sentenza quest’ultima, immediatamente appellata dalla pubblica accusa e dallo stesso avvocato di parte civile Fabio Repici: "Penso che sia giunto il momento che la Procura Distrettuale antimafia di Messina si decida a colpire le responsabilità dei mandanti dell’omicidio appartenenti al terzo livello della mafia barcellonese, partendo dalle rivelazioni del pentito catanese Maurizio Avola". Richiesta di verità e giustizia che arriva soprattutto dalla famiglia Alfano, demoralizzata e delusa, in modo particolare, dal comportamento tenuto dal giornale per il quale il povero Beppe scriveva, La Sicilia, clamorosamente assente tra le parti civili: "E’ una vergogna – dichiarerà Sonia Alfano, figlia del giornalista – è da nove anni che chiediamo giustizia. I primi a dimenticarsi dell’assassinio di mio padre sono stati proprio i responsabili de La Sicilia. Fino a poche settimane prima della sentenza di Reggio Calabria, abbiamo continuato a sollecitare la loro presenza nel processo. E’ stato inutile. Evidentemente non hanno alcun interesse a rivendicare la memoria di un loro giornalista immolatosi sull’altare della lotta alla mafia". Dimenticanza o paura? "Non abbiamo dimenticato Beppe – ribatte il capo redattore Micio Tempio – prova ne è che tra un mese consegneremo il premio alla sua memoria ad uno dei nostri corrispondenti. Il processo? Purtroppo la difficoltà di mandare avanti un giornale ha impedito di seguire direttamente la vicenda… Si è trattato solo di uno sfortunato infortunio di percorso". E così, dopo un iter giudiziario tormentato, si riparte alla ricerca dei colpevoli, dopo che le indagini svolte al tempo dai pm messinesi Gianclaudio Mango e Olindo Canali, furono indirizzate sullo scandalo Aias, l’associazione d’assistenza ai disabili. Ai giudici della Corte d’Assise di Messina, spiegarono che quella volta il boss Pippo Gullotti armò la mano di Antonino Merlino per fare una cortesia al presidente dell’associazione Antonino Mostaccio, per porre fine all’inchiesta giornalistica che Alfano stava conducendo sul patrimonio dell’Aias. Una pista cancellata, però, dall’assoluzione, divenuta definitiva in Cassazione nel ‘99 per Mostaccio. E proprio per questo il caso Alfano non è chiuso. Dal tribunale di Catania, arriva la conferma che su quell’eliminazione si è speculato. Beppe Alfano sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra perché aveva scoperto che, dietro il commercio degli agrumi nella zona tirrenica messinese, si nasconderebbero gli interessi economici della Santapaola e d’insospettabili imprenditori legati alla massoneria. Le rivelazioni sconvolgenti sono di Maurizio Avola, 41 anni, pentito di rango, ex sicario di Cosa Nostra, che ha confessato ai magistrati ben ottanta omicidi, tra i quali quello di un altro giornalista siciliano, il direttore dei Siciliani, Pippo Fava. Avola aveva il compito dentro la 'famiglia' di pianificare le azioni per gli omicidi più importanti. Quello di Alfano era uno di questi. "Il vero mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, si chiama Sindoni, è un grosso massone" – dichiarerà il pentito ai sostituti catanesi, Amedeo Bertone e Nicolò Marino -"Sindoni. E’ un potente massone che conosce tutta la magistratura, quella corrotta logicamente: ha importanti amicizie al Ministero e un po' ovunque. Poi, sempre parlando di soldi, tantissimi giri di soldi insieme ai Santapaola, ai barcellonesi, ai messinesi, nel traffico delle arance. L’omicidio Alfano scaturisce perché il giornalista aveva capito chi era il vero boss nella sua zona e che amicizie avesse questa persona, un vero intoccabile. Il periodo non era quello giusto per fare quest’omicidio, però chi era il personaggio gli si doveva fare (non si poteva dire di no, ndr)". Al pm Bertone che chiederà conto delle dichiarazioni rese in precedenza ai magistrati di Messina sulle modalità dell’omicidio di Beppe Alfano, Avola affermerà d’averle fatte solo su uno dei mandanti, ovvero Giuseppe Gullotti. E alla legittima domanda del procuratore sul perché non avesse subito fatto il nome di Giovanni Sindoni, il collaboratore si giustificherà così: "Perché la massoneria è una cosa che meno si tocca e più tranquilli si sta, perché hanno amicizie un po' in tutti i posti". Solo parole riportate da collaboratori di giustizia de relato? Niente affatto. Maurizio Avola andrà giù secco sull’estremo insulto consumato sulla pelle di Beppe Alfano. Per saperne di più lo abbiamo incontrato in carcere dove in questo periodo sta scontando un periodo di pena. L’ex uomo d’onore del boss Nitto Santapaola è deluso dal comportamento dello Stato. Si sente abbandonato dalle Istituzioni, nonostante non abbia mai smesso di collaborare con la giustizia in questi anni. Lui che è il primo pentito eccellente a svelare ai magistrati di Caltanissetta, Palermo e Firenze, che indagano sui mandanti a volto coperto, i nomi dei personaggi che stanno dietro le stragi del ’92 e ‘93. "La verità su Alfano? Gli inquirenti hanno puntato tutto sulla gestione dell’Aias, sbagliando. Lo dico perché in un primo tempo dovevo preparare proprio io il suo omicidio e quello di Claudio Fava. Marcello D’Agata mi bloccò dicendomi che, per Alfano, ci avrebbero pensato i barcellonesi, Pippo Gullotti e Giovanni Sindoni. Anche i killers sono del luogo. Due. Un uomo di copertura, armato con una pistola di grosso calibro per l’eventuale colpo di grazia e quello che ha materialmente sparato con la calibro 22, una pistola che usano solo i professionisti. La 'famiglia' Santapaola ha dato l’assenso. Ho svelato solo ora i nomi dei veri mandanti del delitto Alfano perché prima era pericoloso… Prendete i mandanti esterni alle stragi. Si corre il rischio che ti prendano per pazzo. Esiste una 'superloggia', una sorta di nuova P2 che ha deciso certe cose in Italia. Non ho raccontato questa verità ai giudici di Messina, proprio perché sapevo che Giovanni Sindoni è amico d’alcuni magistrati corrotti. I miei interlocutori sono i giudici della Dda di Catania, Amedeo Bertone e Nicolò Marino". Dunque, il clan Santapaola sarebbe stato costretto a piegarsi alle esigenze di un uomo "forte" pur comprendendo che ammazzare un giornalista a Barcellona Pozzo di Gotto, proprio dove si nascondeva il boss Nitto, era "come mettergli l’esercito dietro la casa". Beppe Alfano, forse per caso, aveva individuato un’alternativa ai soliti affari messi in piedi nel barcellonese. Il mercato degli agrumi conduce direttamente alla frode delle sovvenzioni agroalimentari dell’Unione europea, "pratica" comune quasi ovunque nel Mezzogiorno. Il fatturato si calcola sia vicino ai mille miliardi annui, con società fantasma che utilizzano anche il giro di fatturazioni fasulle. Inoltre, sui camion che trasportano arance i boss possono far viaggiare anche la droga. E nell’ambito della gestione del mercato agrumicolo si possono guadagnare soldi grazie al mercato delle eccedenze e alla trasformazione industriale del frutto. Sono ormai note le vicende che coinvolgono, suo malgrado, l’Aima, l’Azienda di Stato per gli interventi sul mercato agrumicolo. Il giro vorticoso di subappalti rende quasi impossibile riuscire a districarsi in quello che è un labirinto "aziendale". E Beppe Alfano tutto questo l’aveva capito. L’8 gennaio 1993 un uomo lo ha avvicinato mentre stava rincasando. Lui ha accostato sulla destra e messo in folle. Ha abbassato il finestrino del passeggero e da lì gli sono stati esplosi tre proiettili contro. A volte il boia uccide perché qualcuno lo vuole, mandando al diavolo contraddittorio e diritti della difesa. Beppe Alfano non può più difendersi dalle maldicenze e dalla povertà investigativa. Per onorarne meglio la memoria, sarebbe il caso di provare a rivedere certezze che fanno a pugni con la realtà. Tutti hanno il diritto di indignarsi per l’ultimo schiaffo ad un giornalista che aveva come ambizione quella di far conoscere la verità. Non vorremmo pensare che a Barcellona qualcuno avesse molto da proteggere e così poteva saltar fuori un ottimo movente per uccidere...

(da ammazzatecitutti.org)

Sono le 22 e 30 dell'8 gennaio 1993. In via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, accostata al marciapiede c'è una Renault rossa. E' ferma da un po', come se fosse parcheggiata, ma ha il motore acceso, che romba, su di giri. Dallo scappamento, nel freddo di quella notte d'inverno esce una nuvola di gas di scarico che l'ha quasi avvolta, come se avesse preso fuoco. Arriva il 113 e gli agenti vedono che dentro l'auto c'è un uomo, che sembra essersi addormentato contro il sedile, e col piede sta premendo l'acceleratore. Ma quell'uomo non dorme. Quell'uomo è morto, gli hanno sparato in testa tre colpi di pistola.
L'uomo è un giornalista che si chiama Beppe Alfano. Pochi minuti prima era arrivato a casa con la moglie, aveva parcheggiato e l'aveva accompagnata fino al portone, per salire con lei, ma all'improvviso si era fermato, come se avesse visto qualcosa. Senza dire niente, corre fino all'angolo della strada, per guardare verso una piazzetta che si trovava là dietro. Poi torna indietro, dice alla moglie “vai a casa e chiuditi dentro!”, corre in macchina e parte, svoltando l'angolo. Fa pochi metri, arriva in Via Marconi, e lì gli sparano in testa tre colpi di pistola calibro 22, uccidendolo sul colpo. Perché?
A dire la verità, Beppe Alfano non è un vero giornalista. O meglio, non lo è ufficialmente, non ha il tesserino dell'ordine, ha 47 anni, è un professore di educazione tecnica in una scuola media di un paese vicino. Ha cominciato con le radio private alla fine degli anni '70, a Messina, poi, negli anni '80, le televisioni locali. E i giornali, anche, da tre anni è il corrispondente locale per un quotidiano di Catania, la Sicilia. Politicamente, Beppe Alfano è un militante che viene dall'estrema destra e poi è approdato all' Msi di Giorgio Almirante, anche se ha spesso dei problemi con i vertici perché è troppo indipendente, troppo allergico ai compromessi, tanto che per un periodo viene anche sospeso dal partito. Un giornalista e un politico tutto d'un pezzo, un uomo di destra, quella di Paolo Borsellino, per esempio, che ha idee precise sull'ordine, sulla legge e sullo stato, e su quelle non scende a compromessi.
Un giorno, però, alla fine del '92, parlando con i familiari di quello che sta succedendo in città, Beppe Alfano dice che succederà qualcosa anche a lui. “Mi uccideranno entro la fine di dicembre”, dice. Dicembre passa, passa Natale, passa Capodanno ma l'incubo non svanisce. “Ormai è questione di giorni, dice agli amici. “Non mi hanno ucciso a dicembre, lo faranno prima della festa di San Sebastiano”.
Beppe Alfano non poteva saperlo, ma aveva detto la stessa cosa anche Pippo Iannello, un personaggio importante della criminalità organizzata di Barcellona, ad un altro pregiudicato, Maurizio Bonaceto. Beppe Alfano, aveva detto Iannello, era da considerarsi un uomo morto. Ma perché? Solo perché era bravo? Cosa succede a Barcellona in quegli anni?
In quel periodo è interessata da una lotta fratricida di mafia. E' la fine degli anni '80, quando inizia Mani Pulite. A Barcellona e nell'hinterland il vecchio sistema di potere comincia a scricchiolare. Intanto viene realizzato il raddoppio ferroviario che porta finanziamenti nuovi e finisce di rompere gli equilibri. E' un posto particolare, Barcellona, come lo è tutta la provincia di Messina. Dal punto di vista criminale Messina è sempre stata considerata una provincia “babba”, un po' tonta, perché lì la mafia non c'è, non ha saputo organizzarsi per sfruttare illegalmente le risorse del territorio. Ma non è vero. La mafia a Messina c'è, eccome, solo che non si vede molto. E come emergerà dalle indagini successive, dal processo “Mare Nostrum”, da quello che verrà chiamato il processo al “verminaio di Messina”, da quello che segue all'omicidio di una ragazzina di paese che forse aveva visto troppo e che si chiama Graziella Campagna, la mafia si è anche messa d'accordo con esponenti politici, ha fatto amicizia con magistrati e uomini delle forze dell'ordine per gestire indagini e processi e per garantire una latitanza dorata a boss ricercati. Si è messa in società con imprenditori per inserirsi nell'economia, anche quella illegale. Si è anche fusa con un'altra cosca, quella del boss Nitto Santapaola, che sta a Catania.
Una mafia così ci tiene a far credere di non esistere, a tenere tutto tranquillo e sottotono, a sembrare “babba”. Ma non è vero. Barcellona, per esempio, è un piccolo centro, ha quarantacinquemila abitanti, ma è sempre stato un posto importante per la mafia e fino dagli anni '70. Da lì passavano le rotte del contrabbando di sigarette che poi si sono trasformate in quelle della droga verso il continente, direttamente gestite dalla mafia di Palermo. Lì c'è una raffineria di eroina gestita dal boss Francesco Marino Mannoia, e sempre lì, a Barcellona, c'è un importante manicomio giudiziario, controllato da Cosa Nostra, in cui, grazie a perizie psichiatriche compiacenti, finiscono boss come Tano Badalamenti, boss della 'Ndrangheta e anche capi della mafia americana. Naturalmente, lì la vita è molto diversa da quella che normalmente ci sarebbe in un manicomio giudiziario, ed è facile anche evadere, quando si vuole. E poi, a Barcellona ci sono i soldi, c'è il raddoppio della linea-ferroviaria da fare, c'è l'autostrada Messina-Palermo, ci sono gli appalti e i subappalti. Tutto questo, tutta questa tranquillità che sembra avere il suo boss in Francesco Rugolo e il suo simbolo e il suo garante in un ricco imprenditore, Francesco Gitto, presidente della squadra di calcio cittadina, amico di politici come l'allora sottosegretario al Ministero degli Interni, parente di gente importante come Mario Cuomo, il governatore di New York, tutta questa tranquillità apparente viene sconvolta a metà degli anni '80.
Nel 1986, a Terme Vigliatore, vicino a Barcellona, torna Pino Chiofalo, detto “u' seccu”. “U' seccu” si è fatto tanti anni di galera, ma adesso è uscito e vuole la sua parte. Pino Chiofalo fa parte della piccola mafia che vuole emergere, fuori dalle regole e dal controllo di Cosa Nostra e quello che compie con i suoi 200 mila uomini, a Barcellona, è un vero e proprio bagno di sangue. Girolamo Petretta, storico referente delle famiglie palermitane, ammazzato nel novembre dell'87, Franco Emilio Iannello in marzo, Carmelo Pagano in luglio, Francesco Ghitto in dicembre. Quindici giorni dopo la morte di Francesco Ghitto c'è un blitz della polizia. Pino Chiofalo è a Pellaro, in provincia di Reggio Calabria , impegnato in un summit con i suoi luogotenenti, praticamente tutto lo stato maggiore della sua “famiglia”. La polizia arriva, a colpo sicuro, e li arresta tutti. “U' seccu” finisce dentro di nuovo, si prende l'ergastolo e resta in carcere fino al '95, quando comincia a collaborare con la giustizia. Ammette la responsabilità di tutti gli omicidi di quella sanguinosa guerra di mafia, ma accusa alcuni magistrati e alcuni esponenti delle forze dell'ordine di essere d'accordo con la cosca avversaria, sostenuta direttamente dal boss catanese Nitto Santapaola, che li avrebbe usati per toglierlo di mezzo in maniera pulita. Tolto di mezzo Chiofalo, la situazione si normalizza. Molti dei suoi passano con lo schieramento vincente e arrivano gli appoggi della cosca di Santapaola. Il capo dell'ala militare, l'uomo forte di Barcellona, il referente di Nitto Santapaola, diventa un giovane di buona famiglia, Giuseppe Gullotti.
Ancora. Dal 25 maggio 1992 anche a Barcellona c'è il Tribunale e c'è un pm che sembra considerarlo una trincea per la lotta alla Mafia. Viene dal nord e ha bisogno di informazioni, così tra il sostituto procuratore Olindo Canali e Beppe Alfano, il giornalista bene informato, il segugio che sa fare il suo mestiere, il cane sciolto che non guarda in faccia a nessuno e si lancia contro tutti per rispettare il suo ideale di verità e di giustizia, tra il giornalista e il magistrato d'assalto si stabilisce da subito un rapporto molto stretto. Poi, succede qualcosa. Beppe Alfano vuole parlare con il magistrato. Ma non c'è tempo.
Prima della festa di San Sebastiano aveva detto. La festa di San Sebastiano si tiene il 20 gennaio. L'8, la sua macchina accosta in via Marconi. Alfano abbassa il finestrino. Un colpo alla mano che si copre il volto, uno in bocca, uno alla tempia destra e uno al torace. Calibro 22, un calibro piccolo, da professionisti, silenzioso e micidiale se saputo usare. Perché? Cosa ha scoperto quel giornalista? Quel “cane sciolto” che sa fare bene il suo mestiere?
In quel periodo Beppe Alfano aveva alcune fissazioni. Una è l'influenza economica di Nitto Santapaola a Barcellona, per esempio. E' anche convinto che il boss di Catania sia nascosto l^ e ha ragione. Lui non lo sa, perché morirà prima, ma il boss per un po' di tempo è stato nascosto proprio a Barcellona. In via Trento, a pochi metri da casa sua. Un'altra è l'AIAS, un'associazione che si occupa di assistenza agli spastici, ha sedi in tutta la Sicilia e la sede di Milazzo è la più ricca e meglio finanziata, con centinaia e centinaia di dipendenti, un ingentissimo patrimonio immobiliare e un giro di miliardi. Nei suoi articoli, Beppe Alfano scrive di acquisti gonfiati, di assunzioni facili, di interessi privati, provocando un'inchiesta che coinvolge Nino Mostaccio, presidente dell'AIAS. Altra fissazione, Beppe Alfano sembra convinto di aver scoperto una loggia massonica deviata a Barcellona. A Barcellona, però, non c'è una loggia massonica. C'è un circolo, un circolo culturale molto antico che si chiama Corda Fratres, di cui fanno parte molti nomi noti di Barcellona, esponenti di tutti i settori della società e di tutte le parti politiche. Della Corda Fratres fanno parte molte persone note e rispettate, ma c'è anche un personaggio molto particolare, che al momento della sua iscrizione non è ancora salito alla ribalta della cronaca e almeno ufficialmente è ancora un bravo ragazzo di Barcellona, figlio di una famiglia bene. Il boss Giuseppe Gullotti.
Le indagini sull'omicidio di Beppe Alfano si concludono in fretta. Il 18 novembre 1993 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina emette tre ordinanze di custodia cautelare in carcere. Una è per Nino Mostaccio, il presidente dell'AIAS, accusato di essere il mandante dell'omicidio Alfano. L'altra è per Giuseppe Gullotti, accusato di essere l'organizzatore dell'omicidio. La terza è per Nino Merlino, considerato uno dei Killer del clan di Gullotti. Ad accusarlo è un collaboratore di giustizia, Maurizio Bonaceto, che dice di essere passato per via Marconi la sera dell'omicidio e di aver visto che parlava con Alfano.
Il 15 maggio 1996, la Corte d'Assise di Messina condanna Nino Merlino a 21 anni e 6 mesi e assolve Nino Mostaccio e Giuseppe Gullotti. Bonaceto a ritrattato tutto e così anche un altro testimone chiamato in causa, Lelio Coppolino. Ricorso in appello da parte di pm e difesa di Merlino e nuovo processo.
Il 6 febbraio 1998 la Corte d'Appello conferma la condanna a Merlino e capovolge la sentenza per Gullotti, condannandolo a trent'anni. Mostaccio esce dal processo, completamente scagionato.
La Corte di Cassazione annulla la condanna di Merlino, per cui deve essere rifatto il processo e il 17 aprile 2002, la Corte d'Assise di Regio Calabria cambia ancora e assolve Nino Merlino. In carcere resta soltanto Giuseppe Gullotti, condannato a trent'anni per aver organizzato l'omicidio di Beppe Alfano.
Ma non finisce qui. C'è un collaboratore di giustizia, che si chiama Maurizio Avola. E' di Catania e fa parte della cosca di Nitto Santapaola. E' un uomo importante, che faceva parte del gruppo di fuoco che uccise un altro giornalista, Giuseppe Fava, a Catania, e quando collabora confessa almeno cinquanta omicidi. Parla anche di Alfano. Maurizio Avola dice che Alfano sarebbe stato ucciso su ordine di Cosa Nostra perché aveva scoperto che dietro il commercio degli agrumi si nascondevano gli interessi di Nitto Santapaola e di insospettabili imprenditori legati alla massoneria. Riciclaggio di denaro sporco attraverso i fondi della Comunità Europea, grosse quantità di denaro spariscono nel nulla. Un'attività che farebbe capo a Barcellona. Su questo argomento esiste un'indagine della Procura Distrettuale Antimafia di Messina, ancora in corso e di cui non si conoscono gli sviluppi. Il mistero, per adesso, resta ancora. Chi ha ucciso Beppe Alfano? E perché? (da il portoritrovato.net)
La verità non deve mai morire... il segno che uominicome Beppe hanno lasciato non deve eessere mai dimenticato, anzi deve essere comunicato agli altri... segnali importanti di correttezza legale, morale, civica. La mafia non solo può e deve essere sconfitta ma deve e può essere completamente debellata. Tuttavia non basta dire che la mafia fa schifo, serve prendere coscienza di tuto questo, serve un moto interiore che ci porti a denunciare l'illegalità sia nelle basse che nelle alte sfere della vita e del potere. Questa è una società civile, questa è la Sicilia che Beppe Alfano ci ha insegnato ad amare.

7 commenti:

Ale ha detto...

letto tutto..molto interessante e fai benissimo a raccontare queste storie di uomini grandiosi..

ღ Sara ღ ha detto...

verità e giustizia....questo chiedono i famigliari (e non solo loro)....risuciranno ad averla prima o poi??

Io lo spero...anche se questo è un caso davvero complicato

non posso che quotarti...la verità non deve mai morire e la speranza nemmeno

Buon fine settimana!! un bacio, Sara

Calogero Parlapiano ha detto...

fà sempre piacere che dei ragazzi giovani come voi Ale e Sara siano attenti a queste problematiche e le appoggino giustamente. grazie.
buon fine settimana a tutti.
a presto, ciao

Pellescura ha detto...

Una storia da non dimenticare.
Te lo dico da siciliano.

Calogero Parlapiano ha detto...

condivido appieno Pietro, mi auguro che tanti altri come noi vogliano condividere il ricordo di questa gente che ha lottato ed è morta per amore della giustizia. Quella vera.

Pino Amoruso ha detto...

Per non dimenticare... mai!!! Vergognoso il "silenzio" e disinteressamento del giornale La Sicilia. Spero che presto la verità venga a "galla" e trionfi la giustizia.

Calogero Parlapiano ha detto...

ad ognuno la propria coscienza civica, morale e "statale"... certe persone hanno dato tanto al Paese, ancora c'è qualcuno che pensa di riuscire ad ignorarlo. Un saluto Pino. ciao