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mercoledì 2 settembre 2009

La scelta dei giudici: spiegarsi con i libri

ROMA — È un fenomeno che va avanti già da qualche tempo, quello dei magistrati che scrivono libri per illustrare traguardi e problemi del proprio lavoro. E in particolare i magistrati antimafia. Lo stesso Pietro Grasso, che oggi denuncia il «grave problema» di non essere altrimenti ascoltato, due anni fa aveva dato alle stampe un altro volume, intitolato Pizzini, veleni e cicoria, per raccontare la sua esperienza alla guida della Procura di Palermo. E il suo predecessore in quell'incarico, Gian Carlo Caselli, ha dedicato metà del suo Le due guerre, uscito in primavera, alle contrastate vicende siciliane. Lo scorso anno Roberto Scarpinato, all'epoca procuratore aggiunto nella stessa città, ha scritto Il ritorno del principe, e prima ancora altri due ex pubblici ministeri nella «capitale della mafia», Michele Prestipino e Alfonso Sabella, avevano narrato quanto era emerso dalle loro indagini: il primo ne Il codice Provenzano, il secondo in Cacciatore di mafiosi. Tutti curati con l'aiuto di giornalisti esperti nel settore.

È come se all'improvviso i magistrati che lavorano nel contrasto a Cosa nostra avvertissero l'esigenza di uscire dai Palazzi di Giustizia e condividere le proprie scoperte con chi non ha mai messo piede nei tribunali o nelle corti d'assise dove si celebrano i processi a boss, picciotti e «colletti bianchi»; cioè la grande maggioranza del popolo italiano, in nome del quale vengono emesse le sentenze. Non un'invasione di campi altrui, ma il tentativo di accendere qualche riflettore in più sul proprio campo, quello in cui i giudici e pubblici ministeri giocano ogni giorno. O aggiungere posti in tribuna. Perché la mafia, sembrano dire, non è questione da confinare nei Palazzi di Giustizia. E perché è utile spiegare a un pubblico più ampio dei soliti «addetti ai lavori» come sono cambiate le cosche e il loro modo da agire, che tipo di difficoltà s'incontrano in inchieste e processi, di quanti mezzi si dispone e di quali sarebbe opportuno disporre.

Nelle ultime settimane la «biblioteca delle toghe antimafia» s'è arricchita di altri due volumi. Un giudice di Palermo, Piergiorgio Morosini, ha pubblicato Il Gotha di Cosa nostra (Rubettino, pp. 203, 14), rielaborazione della sentenza che lui stesso ha sottoscritto in un recente processo chiamato — appunto — Gotha, dal nome dell'operazione di polizia con cui nel 2006, a pochi mesi dall'arresto di Bernardo Provenzano, investigatori e inquirenti ritennero di aver decapitato il gruppo che si stava riorganizzando dopo la cattura del «grande capo». E il pubblico ministero Maurizio de Lucia, che fino a due mesi fa ha lavorato nella stessa città, anche all'indagine Gotha, oggi in servizio alla Superprocura di Grasso, ripercorre ne Il cappio (Bur, pp. 254, 9,80, scritto col giornalista Enrico Bellavia) vent'anni di inchieste su estorsioni e tangenti imposte da Cosa nostra. Un doppio viaggio, andata e ritorno, in un mondo criminale che ha finito per condizionare la politica e l'economia nazionale, ma continua a rispondere a regole antiche e immutabili, pure se il mondo è cambiato e sono cambiati i metodi d'inserimento e infiltrazione nel sistema «legale». Al fondo, però, valgono gli stessi princìpi, i legami d'un tempo, le leggi imposte dai primi «padrini». Come dimostrano le intercettazioni ambientali alla base dell'inchiesta e del processo Gotha, dove alcuni capimafia di stretta osservanza corleonese discutono di come affrontare il problema dei cosiddetti «scappati», gli sconfitti della seconda guerra di mafia dei primi anni Ottanta, sopravvissuti e mandati in esilio dall'altra parte dell'oceano. Dopo vent'anni qualcuno di loro s'è riaffacciato in Sicilia, con qualche velleità di rientrare nei vecchi affari. A cominciare dal traffico di droga. E i boss di ieri e di oggi — tra loro Nino Rotolo, il padrone del box dov'erano piazzate le microspie, ergastolano arrestato nel 1985, ma nonostante ciò «uomo d'onore» in servizio permanente effettivo — affrontano la questione facendo paventare un nuovo scontro, anche a suon di morti, tra le diverse «famiglie».

I discorsi di mafia intercettati in quell'indagine sono un materiale straordinario, forse secondo per importanza solo alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, quando nel 1984 svelò i primi segreti di Cosa nostra al giudice Falcone (il quale volle raccogliere anche lui in un libro ciò che aveva imparato e scoperto col proprio lavoro). E permettono di scoprire l'ascesa di nuovi capimafia come Gianni Nicchi, boss non ancora trentenne sul cui ruolo si sofferma pure il pubblico ministero de Lucia, quando racconta di come decise di estendere l'obbligo di pagare il «pizzo» ai commercianti cinesi, riempiendo di colla i lucchetti delle saracinesche dei loro negozi. Le parole di Nicchi, oggi latitante, sono incise nei nastri dell'operazione Gotha insieme a quelle di Rotolo, e dalle loro conversazioni emerge l'orgoglio del vecchio capo per il modo in cui il giovane sta crescendo. De Lucia descrive «il cappio» che si stringe al collo dell'intera collettività attraverso il racket imposto a tutti i livelli; lo dimostra il dialogo in cui un mafioso consiglia all'altro di «lasciar stare i pesci piccoli», ma quello ribatte: «No, tutti i pesci io devo prendere». E racconta lo scambio tra mafia e politica, in quella «stanza di compensazione» che è l'imprenditoria alimentata dai finanziamenti pubblici, in cui i rapporti tra boss, operatori dell'economia e amministratori locali trovano la sintesi che conviene a tutti. A volte raggiunta — come rivelano ancora le intercettazioni di Gotha — attraverso l'imposizione di rappresentanti diretti della mafia nelle liste elettorali. Era tutto scritto in requisitorie e sentenze, ora è narrato in altri due libri scritti dai magistrati protagonisti di quelle inchieste e quei processi. E il «popolo italiano» è un po' più avvertito.

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