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mercoledì 9 aprile 2008

Tibet : Parte Prima



Storia e cultura del Tibet.


Il Tibet rimase per molto tempo un mito geografico per il grande pubblico occidentale. Lo s’immaginava come un altopiano inospitale, spazzato dai venti e dalla neve, separato dal mondo da formidabili barriere montuose. Al mistero dell'inaccessibile si aggiungeva il fascino dell'altitudine. L'elevazione topografica del 'tetto del mondo' presuppose la conseguente elevatezza di vedute dei suoi abitanti. Lo s’immaginò popolato quindi di ’saggi’ e di ‘mistici’, fluttuanti fra terra e cielo nel rapimento dell'estasi o immersi in profonde meditazioni in fondo alle grotte. Mistero e magia furono due luoghi comuni senza i quali il Tibet in quel periodo non poteva essere presentato sulle copertine dei libri o nei manifesti delle conferenze.

Quando la realtà tibetana fece di colpo irruzione sulla scena internazionale negli anni cinquanta, si rivelò del tutto diversa, ben più prosaica, quasi drammatica. Nonostante ciò, essa merita sempre il nostro interesse. Contrariamente a quanto si credeva, il Tibet era stato aperto alle civiltà vicine per molti secoli, trattenendo con loro scambi materiali e culturali. La sua civiltà si era sviluppata negli ambienti naturali più diversi non solo nell'arido altopiano. La temperatura media annuale di Lhasa (9.8°) supera di due gradi quella di Monaco, e i peschi vi fioriscono a partire dai primi giorni di aprile.
Infine, se per ogni tibetano il sentimento religioso faceva parte della quotidianità, la grandissima maggioranza di loro era dominata dalle necessità materiali della vita, persino della sopravvivenza, in un ambiente difficile.


Una vasta area culturale.


La cultura tibetana ha prosperato su una vasta area geografica (3.800.000 kmq circa) che supera di gran lunga le frontiere dell'attuale regione autonoma del Tibet (fondata nel 1965) e include le regioni tibetane delle province di Gansu, di Qinghai, di Sichuan e di Yunnan ad est, così come le alte vallate himalayane a sud, dal Ladakh fino al Bhutan. Quasi ovunque la configurazione geografica è segnata da elevate altitudini, con una media intorno ai 4500 metri, e con un rilievo montuoso dalle proporzioni spesso grandiose.
Le scoperte archeologiche, ancora limitate, documentano la presenza umana sull'altopiano tibetano a partire almeno dal medio paleolitico, circa 50.000 anni fa. Gli storiografi cinesi considerano i tibetani del VII secolo, che si erano da poco unificati in un potente reame, come un ramo dei Qiang, un antico popolo ai confini nord-ovest della Cina che si era progressivamente stabilito lungo le sue province occidentali. Infatti, le popolazioni (circa sei milioni) che appartengono all'area culturale tibetana sono evidentemente d’origini diverse: alcune, in un primo tempo considerate come straniere, furono poi assimilate con il passare del tempo, grazie anche ai numerosi movimenti migratori avvenuti nel corso dei secoli. La grande estensione geografica, l'altitudine e gli spazi disabitati hanno ulteriormente accentuato la diversità fra le varie regioni.
Le popolazioni così dette tibetane si ripartiscono in due grandi categorie secondo i diversi habitat ed i modi diversi di vita: gli allevatori nomadi e gli agricoltori sedentari. I primi praticano l'allevamento estensivo degli yak, dei montoni e delle capre da cui ricavano l'essenziale per la loro sussistenza, sia sull'altopiano del nord e dell'ovest, così come nelle steppe d'altura che separano le regioni agricole situate nelle valli meridionali e orientali. Gli agricoltori, che rappresentano la grande maggioranza della popolazione, ricorrono generalmente a un tipo di produzione mista che associa l'allevamento alla coltivazione dell'orzo (alimento base), del grano, dei piselli e del grano saraceno. Essi coltivano anche del mais, del miglio o del riso, quando il clima lo consente.
Sono tuttavia essenzialmente la lingua e la religione, ma anche certi tratti sociali e psicologici che definiscono l'area della cultura tibetana e le conferiscono unità. Nella sua struttura e nel suo vocabolario il tibetano è imparentato con il birmano, in seno alla famiglia delle lingue tibetobirmane, che, a loro volta, si ricollegano ad un vasto gruppo detto 'sino-tibetano'. Ai numerosi dialetti le cui caratteristiche possono essere abbastanza accentuate da creare tra loro una reciproca comprensione, si è sovrapposta, dopo l'introduzione della scrittura nel VII secolo, una lingua letteraria legata al Buddhismo che diventa una lingua franca in uso da un'estremità all'altra dell'area tibetana. La religione, non soltanto il Buddhismo tibetano ma anche le sue espressioni popolari, ha ugualmente contribuito in quanto tale all'unità di quest’area culturale. Infine il Tibet ha esportato la sua cultura dotta, con il Buddhismo, al di là delle sue frontiere: verso certe popolazioni tibeto-birmane al sud e soprattutto verso i mongoli al nord.


Re conquistatori e missionari buddisti (VII-IX secolo)


Il Tibet entra nella storia a partire dall'inizio del VII secolo, quando un sovrano della valle di Yarlung, al sud del Tibet centrale ingrandisce il suo dominio e ottiene l'alleanza dei signori vicini. Quest’espansione acquista un'ampiezza considerevole con suo figlio Songtsen Gampo (morto nel 649), nel quale la tradizione autoctona vede il vero fondatore dello Stato tibetano e delle sue istituzioni. Si trattava di una monarchia feudale nella quale i poteri del re erano limitati dai potenti vassalli che possedevano vasti fondi e partecipavano al governo dello Stato. Songtsen Gampo conquistò il regno straniero di Shang shung ad ovest del Tibet centrale, fece incursione a sud dell'Himalaya e venne a minacciare i confini occidentali della Cina. Durante i due secoli successivi, i suoi successori dinastici estesero ancora questo dominio alle dimensioni d’impero. I tibetani combatterono fino al Tadjikistan dove le armate arabe partivano alla conquista dell'Asia Centrale, occuparono importanti oasi della via della seta e s’impadronirono anche, per due settimane, della capitale cinese nel 763. Attraverso queste conquiste il Tibet entrò in contatto stretto con civiltà prestigiose. A sud l'India, il Kashmir e la valle di Kathmandu - l'antico Nepal - erano ancora testimonianza dell'apogeo classico che aveva conosciuto l'impero Gupta (320-500). Ad ovest gli stili iraniani e occidentali si mescolavano all'eredità indiana. Quest'ultima era anche particolarmente evidente al nord, nelle oasi della via della seta. Da nord-est e dall'Oriente penetravano lo splendore e la potenza della dinastia dei Tang (618-917) da cui i re tibetani ottennero due principesse in matrimonio. Ovunque, infine, il Buddhismo costituiva una potente spinta culturale.
Le necessità amministrative del nuovo stato e i suoi contatti con l'estero condussero all'adozione di un sistema di scrittura. Secondo la tradizione tibetana, è il re Songtsen Gampo che l'avrebbe fatta elaborare a partire da un prototipo indiano con il quale s’introdusse anche la grammatica. Nel mondo indiano all'epoca si scriveva sulla scorza di betulla o su foglie di palma, ma i tibetani conoscevano anche la carta per via dei loro contatti con la Cina. Essi adottarono la tecnica di fabbricazione della carta pur restando fedeli alla presentazione tradizionale dei libri indiani sulle foglie di palma: una pila di foglie lunghe e strette racchiuse dentro due tavolette.
Sempre sotto il regno di Songtsen Gampo il Buddhismo avrebbe cominciato ad introdursi in Tibet sotto l'influenza delle due spose straniere: principesse d’origine cinese e nepalese. Anche se, secondo i documenti antichi Songtsen Gampo non sembra essere stato il devoto buddhista celebrato dalla tradizione successiva, pur tuttavia, dall'inizio del IX secolo, i suoi discendenti gli attribuirono la costruzione del Grande Tempio di Lhasa dove i re avevano stabilito la loro capitale. In effetti, le parti più antiche di questo santuario, qualche incorniciatura di porte in stile nepalese e dei massicci pilastri, potrebbero benissimo risalire al VII secolo.
Il patrocinio da parte dei sovrani nei confronti del Buddhismo non divenne decisivo che sotto il regno di Thisong Detsen (755-797) che ne fece la religione di Stato e fondò la prima comunità monastica tibetana a Samye. A partire da quest’epoca la corte si prese carico delle necessità dei religiosi: monaci o praticanti tantrici laici. Essi furono anche esentati dalle tasse e dagli obblighi militari che incombevano sui sudditi. Più tardi il re diede in donazione ai monaci delle terre e anche delle famiglie di sublocatari per coltivarle. L'influenza del Buddhismo si accrebbe ancora più allorché, a partire dall'inizio del IX secolo, ad alcuni monaci furono attribuiti dei ruoli politici di primo piano, entrando così in competizione con le prerogative tradizionali della nobiltà di cui una parte era ostile alla nuova religione.


Un Buddhismo carico di storia.


Il Buddhismo, che allora stava diffondendosi in Tibet, era il risultato di una lunga evoluzione iniziata quando Shakyamuni, divenuto Buddha, vale a dire il Risvegliato, aveva predicato la sua dottrina di redenzione sulle rive del Gange, all'incirca nel VI secolo a.C. Nei primi secoli della nostra era l'antico ideale dell'arhat - il monaco che ha raggiunto per se stesso l'estinzione definitiva (nirvana) delle passioni che incatenano al ciclo doloroso delle rinascite - fu soppiantato da quello del bodhisattva,‘il votato al risveglio'’ che s’impegna a raggiungere la condizione di Buddha portando alla perfezione l'esercizio di virtù come la compassione, il dono, la saggezza o l'abilità nei mezzi di redenzione a beneficio di tutti gli esseri nel corso d’innumerevoli esistenze. Questo nuovo ideale, personificato da un crescente numero di bodhisattva citati nei testi, non era più ristretto soltanto ai monaci, ma poteva ugualmente essere seguito, o almeno venerato, dai laici. I seguaci di questo nuovo orientamento gli diedero l'appellativo ‘Grande Veicolo’ (Mahayana), in contrasto con l'antica forma di Buddhismo il cui ideale appariva eccessivamente limitato.
Il Mahayana si fondava sui sermoni attribuiti al Buddha che spiegavano la ‘perfezione di saggezza’ (prajnaparamita), virtù essenziale dei bodhisattva, secondo la quale i fenomeni non sono soltanto privi di un ‘sé’ permanente, come si era insegnato sino allora, ma ‘vuoti di natura propria’. E questo Vuoto universale (sunyata) che rappresenta la Verità ultima, l'Assoluto al di là delle apparenze ingannevoli del mondo fenomenico da cui si lascia irretire lo spirito obnubilato dall'errore. Esso è la natura profonda dei Buddha, il loro ‘corpo di dottrina’ (dharmakaya) che è anche presente allo stato potenziale, ‘embrionale’, in tutti gli esseri. Questo Assoluto può essere realizzato al termine di un lungo cammino (marga) seguìto per innumerevoli esistenze nel corso delle quali il praticante procede ad un doppio accumulo: di meriti tramite le opere, e di conoscenza grazie al controllo dello spirito. Dal punto di vista della realtà ultima il Buddha storico Shakyamuni, gli altri Buddha del passato o del futuro, quelli che predicano negli innumerevoli campi puri che costellano lo spazio infinito, e i bodhisattva - tutte le figure del pantheon insomma - non sono altro che manifestazioni, in apparenza molteplici ma create per il bene di tutti gli esseri, del Vuoto. I corpi dei Buddha presentano così tre aspetti: il loro ‘corpo di dottrina’ è senza forma, inconcepibile, unico e comune a tutti i Buddha. Il ‘corpo di felicità’ (samghogakaya) si manifesta in particolare nei campi puri, ma resta invisibile allo sguardo ordinario. Il’corpo di trasformazione’ (nirmanakaya) si manifesta nel nostro mondo nell'esempio di Shakyamuni, ma anche sotto altre forme capaci di operare per il bene e la salvezza degli uomini, degli animali, degli dei ecc. che popolano le diverse regioni della terra. Le rappresentazioni figurate, pitture e statue, fanno teoricamente parte di quest'ultima categoria. In effetti, esse ebbero un utilizzo crescente parallelamente a questi sviluppi dottrinali. Nell'iconografia del Buddhismo tibetano, il ‘corpo di dottrina’ sarà rappresentato dai Buddha, il ‘corpo di felicità’ dai bodhisattva che sono emanazioni dei precedenti, e il ‘corpo di trasformazione’ da Shakyamuni o da maestri religiosi.
Poco prima della sua introduzione nel Tibet, e quando già da molto tempo (I sec. d.C.) si era propagato fin nell'Asia Centrale e in Cina, una nuova corrente prese corpo nel Buddhismo indiano: il Veicolo dei Tantra (Tantrayana), così chiamato in base ai testi (Tantra) di cui era costituito. Pur continuando ad utilizzare le basi filosofiche del Grande Veicolo, il Tantrayana offriva una via più rapida verso la liberazione tramite la pratica mistica ritualista. Questa mira a sperimentare in se stessi l'unione del ‘mezzo’ (upaya), principio maschile identificato con la Compassione e visualizzato sotto l'aspetto di figure maschili nel pantheon, e di ‘saggezza’ (prajna), principio femminile identificato con il Vuoto e visualizzato sotto l'aspetto di divinità femminili, padre dei precedenti. Dalla loro unione non duale nasce l'Assoluto. Quest’esperienza ineffabile non è più necessariamente un obiettivo lontano, ma può essere realizzata attraverso un'inversione istantanea dei piani che porta a scoprire l'Assoluto nella sua purezza originaria, costantemente presente seppure nascosto dal gioco ingannevole delle costruzioni mentali. In realtà, l'Assoluto non è qualcosa da raggiungere, ma qualcosa da scoprire in se stessi. Perciò il praticante ricorre, sotto la guida di un maestro (guru/lama), a procedimenti rituali complessi e adattati alle sue particolari disposizioni, che coinvolgono il corpo, la parola e lo spirito; tecniche psico-fisiologiche dello yoga accompagnate da visualizzazioni, gesti (mudra) e formule esoteriche (mantra). Queste pratiche mistiche diedero luogo ad un arricchimento notevole del pantheon buddhista, che assimilò altresì influenze induiste. Gli insegnamenti tantrici si basavano, in effetti, su diversi cicli (mandala) di divinità la cui natura e gerarchia si esprimono nel simbolismo complesso dei loro attributi e della loro disposizione nello spazio. I cicli tantrici più alti (anuttarayogatantra), che storicamente sono anche quelli più tardi, assegnavano un ruolo centrale a ‘divinità d'elezione’ (istadevata) specifiche per ogni praticante.
Nelle comunità monastiche, gli insegnamenti del Tantrayana acquisirono un'importanza crescente a fianco delle dottrine più antiche del Mahayana. Ma, come nel caso del voto del bodhisattva, l'assunzione del voto tantrico che dava accesso a questi insegnamenti ritenuti esoterici non era necessariamente subordinata a quella dei voti monastici. Le pratiche mistiche dei Tantra furono quindi diffuse anche da religiosi laici; yogin itineranti o capifamiglia. Privilegiando l'esperienza mistica diretta rispetto alla dogmatica, il Tantrayana diede necessariamente luogo ad una proliferazione di testi e di figure divine nate da visioni particolari. Le due grandi tendenze della pratica dei Tantra buddhisti, monastica e secolare, penetrarono insieme in Tibet durante il periodo reale. Esse sono rappresentate in modo emblematico dai due religiosi indiani ai quali la tradizione tibetana attribuisce un ruolo di primo piano nella fondazione del monastero di Samye: Santaraksita, l'abate proveniente dall'università monastica di Vikramasila, e Padmasambhava, lo yogin tantrico, ‘grande perfetto’ (mahasiddha) dai poteri soprannaturali grazie ai quali riuscì a sottomettere le divinità locali ostili e a far loro assumere sotto giuramento il ruolo di protettori della dottrina.
La venuta dei missionari buddhisti in Tibet, ma anche i contatti culturali e la ricerca di insegnamenti nei paesi vicini, generarono un'importante attività di traduzioni sia dal cinese che dal sanscrito, sotto l'egida della dinastia reale. Si fecero anche venire degli artigiani stranieri per la costruzione e la sistemazione interna dei templi e dei monasteri di cui la tradizione sostiene che alcuni furono concepiti secondo modelli indiani. Sembra che queste realizzazioni abbiano associato alle tradizioni tecniche autoctone, influenze indo-nepalesi, cinesi e centro asiatiche in uno stile eclettico di cui ci sono pervenute solo alcune testimonianze frammentarie. Parallelamente al Buddhismo il Tibet monarchico si aprì anche alle scienze tradizionali quali la medicina, l'astrologia e il calcolo divinatorio.


Crepuscolo dinastico e rinascita del Buddhismo (IX-XII secolo)


Il peso politico ed economico crescente del monachesimo buddhista provocò un complotto dei nobili che a lui erano contrari. Nell'838 essi assassinarono il re praticante Repachen e lo sostituirono con suo fratello Langdarma che, secondo la tradizione tardiva, avrebbe allora iniziato a sradicare il Buddhismo. In realtà la persecuzione fu probabilmente diretta meno contro il Buddhismo in quanto tale e nel suo insieme, che contro le sue strutture monastiche legate allo Stato. Langdarme fu a sua volta assassinato e i conflitti di successione che ne seguirono fecero perdere alla dinastia di Yarlung il controllo politico e militare del vasto impero che essa aveva creato in Asia. I capi locali si ritagliarono dei domini indipendenti e l'area tibetana si disgregò in territori feudali. Alcuni discendenti della famiglia reale, o delle stirpi nobili che le avevano fornito dei ministri e dei generali, si stabilirono ai confini dell'antico impero dove il Buddhismo si era più o meno mantenuto e dove, in ogni caso, esso restava esposto a dei vicini focolai d’irraggiamento.
Lo stesso accadde alle province sino-tibetane: nel Kham a sud e nel Amdo (attuale provincia di Qinghai) a nord, dove i territori tibetani erano influenzati dal vicino reame tangut di Xixia etnicamente imparentato con loro. I sovrani di questo regno (1036-1227) che inglobava il celebre complesso di templi e monasteri rupestri di Dunhuang, in altri tempi occupati dai tibetani, patrocinarono, in effetti, un’arte buddhista magnifica che si esprimeva altrettanto bene sia nello stile indiano sia in quello della Cina, ed ebbe probabilmente dei legami importanti con il rinascimento tibetano dell'XI e XII secolo. Contemporaneamente all'estremità occidentale dell'antico impero alcuni discendenti della dinastia di Yarlung fondarono, nella seconda metà del IX secolo, un vasto insieme di tre reami comprendenti il Ladakh, contiguo al Kashmir, dove il Buddhismo, in particolare nella sua forma tantrica, era allora fiorente. Questo reame del Tibet occidentale si manterrà, con alterna fortuna, fino all'inizio del XVII secolo.
Secondo la storiografia tibetana, un periodo oscuro di circa 140 anni seguì la caduta della dinastia prima che il Tibet centrale conoscesse una ‘seconda propagazione’ del Buddhismo. Fu necessario reintrodurre l'ordinamento monastico la cui linea di trasmissione, che doveva risalire senza discontinuità fino al Buddha storico, era stata interrotta. D'altra parte le pratiche mistiche e rituali dei Tantra erano state più o meno mantenute dai religiosi secolari nei villaggi e negli eremi, ma, in assenza di un potere centrale che avrebbe vigilato affinché la loro ortodossia si fosse mantenuta, sembrarono aver deviato. S’impose dunque un ritorno alle origini buddhiste. Essendo l'Asia Centrale passata sotto la dominazione musulmana ed essendo il Buddhismo in decadenza in Cina, i tibetani si rivolsero, questa volta, esclusivamente verso l'India. Questo ritorno alle origini fu patrocinato dai sovrani del Tibet occidentale che inviarono dei giovani tibetani, in particolare il celebre Rinchen Zangpo, (958-1055) a raccogliere gli insegnamenti buddhisti nel Kashmir e nel bacino del Gange. Ma fu anche l'opera di individui che, di loro iniziativa, passarono i valichi himalayani verso il Nepal e l’India. Allo stesso tempo, dei maestri indiani, kashmiri e nepalesi vennero ad insegnare nel Tibet. Uno dei primi fra loro fu Atisha (982-1054) che era annoverato allora fra le personalità della prestigiosa università monastica di Vikramashila patrocinata dalla dinastia dei Pala nel nord-ovest dell'India. Nel 1042 egli rispose all'invito dei sovrani del Tibet occidentale, poi andò nel Tibet centrale dove morì lasciando dietro di lui una tradizione di scuola nella quale la pratica dei Tantra era subordinata ad una propedeutica dottrinale graduale e al rigoroso rispetto dei voti monastici.
Contemporaneamente molti tibetani si misero in cerca d’insegnamenti personali di ‘grandi perfetti’ (mahasiddha). Questi, contrariamente alla tradizione più convenzionale rappresentata da Atisha, ripudiavano le speculazioni dottrinali e le regole monastiche per dedicarsi direttamente alle esperienze mistiche dei cicli tantrici più elevati pensando costituissero la via più rapida verso l’illuminazione.
Il Paese delle Nevi raccolse così l'ultima eredità del Buddhismo indiano prima che esso sparisse dalla sua terra di origine sotto l’effetto delle conquiste musulmane alla fine del XII secolo nella piana del Gange, e due secoli più tardi nel Kashmir. La valle di Kathmandu, al riparo da questi scompigli, continuò ad essere un importante focolaio d’irraggiamento buddhista e soprattutto artistico per il Tibet.
La seconda propagazione del Buddhismo si accompagnò ad un'importante attività di traduzione dal sanscrito. S’introdussero non solo nuovi insegnamenti ma ci si volle anche assicurare dell'ortodossia dei testi conservati fin dall'epoca monarchica ricercando le loro origini indiane. Maestri autoctoni riunirono attorno a loro dei discepoli, monaci o tantrici laici secondo il loro indirizzo, ai quali trasmisero gli insegnamenti che essi stessi avevano ottenuto, fondando così delle comunità che, in alcuni casi saranno all'origine di scuole religiose specifiche.
Le modalità di successione al comando di queste scuole erano variabili. Gli abati dei monasteri della scuola Kadampa, ereditaria degli insegnamenti di Atisha, erano in carica per periodi limitati. In altri casi il lignaggio derivato dal fondatore, lignaggio che frequentemente si riteneva discendesse dall'antica nobiltà, trasmetteva al suo interno, di generazione in generazione, la direzione spirituale e ciò che essa rappresentava: l'aura divenuta sacra a partire dal primo gerarca e contemporaneamente al potere temporale del principato legato al monastero principale. Ai rappresentanti maschili di questi lignaggi era generalmente riconosciuta una qualità ereditaria che li predisponeva a poter essere riconosciuti, all’occorrenza e non importa in quale momento della loro vita, come la manifestazione ricorrente della figura divina che si era inizialmente incarnata nel fondatore. Infine, certi ordini quali i Karmapa e più tardi i Gelugpa, optarono per il sistema delle reincarnazioni successive nelle quali il decesso di ciascun capo era seguito dalla ricerca della sua reincarnazione in un piccolo bimbo nato da una famiglia non prestabilita. Le differenze fra le scuole non erano dovute a divergenze dottrinali fondamentali. Esse venivano da interpretazioni particolari di alcuni concetti filosofici, di pratiche mistiche specifiche e dalla preminenza accordata a tale o talaltro ciclo tantrico. D'altra parte le scuole nate dalla seconda propagazione del Buddhismo si fondavano su nuove traduzioni e ricusavano i testi risalenti all'epoca monarchica per i quali l'esistenza di testi originali sanscriti non poteva essere stabilita. I loro adepti furono dunque qualificati dei ‘nuovi’ (sarmapa)' in opposizione agli ‘anziani’ (nyingmapa) che pretendevano perpetuare, senza discriminazione, gli insegnamenti della prima propagazione al seguito di Padmasambhava, divenuto loro eroe fondatore. Gli eruditi tibetani delle scuole ‘nuove’ cominciarono a riunire, rivedere e classificare la voluminosa letteratura buddhista ereditata, direttamente o indirettamente, dall'India. Quest’opera considerevole sfocerà, nel XIV secolo, nella costituzione di due vasti corpi canonici che racchiudono rispettivamente gli insegnamenti del Buddha e d’altre figure divine (Kanjur) e i trattati di maestri indiani (Tanjur). D'altra parte i maestri tibetani cominciarono a produrre, dall’XI secolo, una letteratura autoctona ricca e varia: esegesi certo dottrinali, ma anche rituali, canti mistici, biografie, storiografie, scienze ecc.


Buddhismo e arte sacra.


La rinascita del Buddhismo tibetano e la moltiplicazione delle fondazioni religiose resero necessaria la creazione di ‘supporti’ espressivi della parola, dello spirito e del corpo di Buddha. Così i testi sacri - per le loro funzioni, ma anche in quanto oggetti di devozione - materializzano la parola salvatrice. Lo spirito del beato è venerato nello stupa, oggetto votivo o costruzione la cui forma e natura derivano dal tumulo funerario che proteggeva le sue reliquie. Il piano fisico, infine, è reso manifesto dalle immagini scolpite o dipinte destinate al culto e alla meditazione e, secondo certune fonti, dai santuari che le ospitano. La realizzazione di questi ‘supporti’ è fonte di meriti tanto per chi li commissiona quanto per chi li esegue.
Al tempo della seconda propagazione del Buddhismo, i modelli indiani continuarono a determinare la struttura dei templi pur essendo interpretati con tecniche di costruzione autoctone adattate alle condizioni locali. Conformemente alla tradizione indiana la statuaria era accompagnata da una ricca iconografia dipinta sui muri o su pezzi di tela appesi. L'arte di quest’epoca, di cui solo le produzioni religiose ci sono pervenute, fu profondamente influenzata, direttamente o attraverso il collegamento del Nepal, dallo stile che si era sviluppato nell'India del Nord-Est sotto il patronato dei Pala-Sena (VIII-XII secolo). Nello stesso periodo questo stile, divenuto una corrente artistica internazionale, segnava anche le produzioni dei regni di Xixia (1038-1227) di cui noi abbiamo citato più sopra il sorgere nel nord est del Tibet. L'arte promossa dai sovrani del Tibet occidentale fu particolarmente influenzata da quella del vicino Kashmir.
È durante questa rinascita del Buddhismo tibetano che si fissarono i generi e le tecniche dell'arte sacra che perdurano, nelle loro grandi linee, fino ad oggi.
Essenzialmente la scultura era realizzata in argilla lavorata o in metallo. La prima tecnica, che ha degli antecedenti in Asia Centrale, fu usata specialmente per le grandi statue d’importanti monasteri. L'argilla - mescolata con piccoli frammenti di tela grezza, di paglia tritata o di carta bagnata - era lavorata intorno ad un'armatura interna di legno e di paglia quando le dimensioni lo richiedevano. Una volta seccata, essa era generalmente ricoperta da una ricca policromia oppure dorata. L'impiego del metallo sembra essere stato inizialmente limitato alla statuaria portatile. Leghe a base di rame e di zinco (ottone) in proporzioni variabili erano colate secondo la tecnica della cera persa, anticamente conosciuta in India e in Cina. La statua nel suo insieme o in parti, è prima lavorata in cera, all'occorrenza intorno ad un nucleo: la sua futura cavità interna, è poi circondata da una massa d’argilla messa ad indurire. Al momento della colata il metallo in fusione occupa il posto della cera liquefatta al suo contatto ed estromessa attraverso i fori di scolo. Questa tecnica impiegata anche nella produzione d’oggetti votivi o rituali richiede quindi la realizzazione di un nuovo prototipo in cera per ogni colata. È solamente a partire dal XVIII secolo, e probabilmente sotto l'influenza cinese, che si diffuse anche l'uso di stampi riutilizzabili permettendo la fabbricazione in serie, meno costosa. Col tempo gli ornamenti delle statue di metallo s'arricchirono sempre più di pietre preziose o semipreziose: turchesi e coralli in particolare o d’inclusioni in rame o in argento, perpetuando così tradizioni indo-nepalesi. Certe statue particolarmente preziose, furono colate in oro o in argento. Il lavoro del rame repoussè a sbalzo, è documentato nel Tibet a partire, perlomeno, dal XIV secolo per la realizzazione di placche ornamentali, di decorazioni architettoniche o di ‘palazzi di divinità’ (mandala) in tre dimensioni. A partire dal XVI secolo, questa tecnica fu ugualmente impiegata nella realizzazione di grandi statue dalle dimensioni talvolta colossali.
I monasteri tibetani non ospitavano che raramente statue di legno. Si trattava in questo caso, spesso, d’effigi che si riteneva essere in legno ‘prezioso’: sandalo, acacia e di origine magica. In compenso, il legno scolpito ha sempre occupato un posto importante nell'ornamento architettonico: cornici di porte, capitelli, modanature di cornicioni, elementi d’altari. Analogamente, la rarità della scultura in pietra contrasta con la relativa abbondanza di figure buddhiste scolpite in bassorilievo su pareti rocciose e con le innumerevoli lastre di scisto scolpite con immagini o formule esoteriche che costituiscono i ‘muri di preghiera’.
La doratura era realizzata a freddo o a caldo. Nel primo caso si tratta semplicemente dell'applicazione, a pennello, d'oro polverizzato di fabbricazione talvolta molto delicata legato da un collante di origine animale o vegetale. Questa tecnica è necessariamente impiegata quando il supporto non può essere esposto al calore, come nel caso della pittura e delle statue d’argilla. Essa permette anche di rinnovare regolarmente, in segno di venerazione, la doratura del viso delle statue metalliche. La doratura a caldo, anticamente conosciuta in India e in Cina, ma probabilmente introdotta in Tibet da artisti nepalesi, consiste nell'applicazione di un’amalgama di mercurio e di oro sulla superficie metallica e nel far poi evaporare il mercurio a contatto di una sorgente di calore. Quanto alla doratura a foglia d'oro, essa fu impiegata raramente, per statue di legno o in argilla.
La tecnica pittorica, anch'essa d’origine indo-nepalese non ha conosciuto dei cambiamenti notevoli nel corso dei secoli. È identica qualunque sia il supporto una volta adeguatamente preparato: superficie murale o, più sovente, tela ma anche carta (miniature dei testi) o legno (soffitti dipinti). I muri ricevono prima parecchi strati d’intonaco costituiti di un misto, sempre più fine, d’argilla, di sabbia e di sterco di cavallo. Infine l'intonaco, dopo essere stato lisciato con l'aiuto di un ciottolo, è coperto con una sottile pellicola di colla di pelle di yak mescolata ad argilla in sospensione. Per le pitture portatili su tela chiamati thang-ka ‘superficie piana da arrotolare’ e che si rifanno alla tradizione indiana dei pata, la tela di cotone - talvolta di lino o di canapa - è tesa in un telaio da una legatura che ne ferma i bordi. In seguito è impregnata di un appretto a base di colla di pelle di yak o direttamente rivestita di un misto di creta o caolino con la colla. Questo strato è infine lisciato con l'aiuto di un ciottolo. I thang-ka dipinti su seta, per i quali è necessaria una tecnica speciale, sono produzioni cinesi e non autoctone.
Una volta preparato il supporto, la superficie è divisa secondo le sue principali linee geometriche in modo da poter stabilire le posizioni delle figure più importanti. Una griglia, tracciata su ciascuno di questi spazi, serve di riferimento permettendo di disporre gli elementi costitutivi di queste figure e di disegnarle secondo le proporzioni fissate dai canoni iconometrici. I pigmenti - tradizionalmente d’origine minerale o organica e diluiti nella colla di pelle di yak - sono poi applicati a pennello secondo una tecnica che ricorda quella della pittura a tempera.
Da notare che thang-ka realizzati interamente in tessuto, ricami e arazzi di seta alla cinese (kesi), furono in uso nelle province tibetane orientali a partire dal XII-XIII secolo. Pur continuandone l'importazione, i tibetani svilupparono ulteriormente la tecnica autoctona dell'appliquè. Essa consiste nel confezionare delle ‘immagini in tessuto’ (goku) di cui alcune di dimensioni enormi, attraverso la cucitura di varie parti di tessuto con colori e motivi contrastanti, generalmente di seta cinese o indiana.
I principi di composizione pittorica restarono nell’insieme relativamente semplici, soprattutto fino al XV secolo. La figura principale occupa il centro della pittura, mentre i personaggi e le scene narrative sono disposte simmetricamente da una parte e dall'altra. La dimensione delle figure è proporzionata alla loro importanza. Infine, si possono distinguere spesso tre livelli sulle pitture, senza che essi siano necessariamente segnalati da linee di divisione. La zona mediana, che copre la maggior parte della superficie, è destinata al personaggio principale e al suo seguito. Quando la divinità legata al personaggio centrale è rappresentata, essa occupa, in dimensioni nettamente minori, il centro del registro superiore. È anche a questo livello che si trovano abitualmente i Buddha, i bodhisattva e i maestri che costituiscono il lignaggio di trasmissione degli insegnamenti religiosi. Il registro inferiore è sovente occupato da divinità protettrici della dottrina, dagli offerenti, o nei tempi antichi, dalle figure dei donatori.
Fino al XV secolo è largamente prevalsa la struttura molto geometrica della superficie pittorica, ereditata dalla tradizione indo-nepalese: personaggio centrale in un rigoroso piano frontale e figure secondarie allineate in registri sovrapposti in uno spazio a due dimensioni al quale lo sfondo, costituito da decori floreali, da nuvole o da rocce stilizzate, non era destinato a dare profondità. In seguito, e senza dubbio sotto l'influenza della scuola cinese, i pittori iniziarono a suggerire una certa profondità dello spazio per mezzo di piani successivi e sovrapposti nel paesaggio con strati di montagne e elementi d’architettura rappresentati in ‘prospettiva’. Nelle pitture di màndala, letteralmente ‘cerchi’, lo stretto ordine geometrico delle figure rimase una caratteristica imposta dal soggetto stesso. Questo termine ha qui molte implicazioni: cerchio della divinità importante rispetto a un dato insegnamento tantrico, cerchio che delimita l'area consacrata dove esse risiedono e nella quale penetra fisicamente o mentalmente l'iniziato, e infine cerchio che circoscrive l'universo così progettato simbolicamente sull'area rituale. A1 centro di un palazzo con quattro porte orientate verso i punti cardinali, e visto in pianta sulla pittura, siede la divinità principale circondata, ad oriente e nelle direzioni intermedie, da figure secondarie. Il simbolismo legato a questa struttura fa di essa anche una cosmografia.
La pittura tibetana non ha mai conosciuto l'illuminazione laterale, le ombre segnate. La luce scaturisce dalla stessa pittura, in colori spesso vivi e fortemente contrastanti, come la pura luce indifferenziata che mostra l'esperienza mistica dell'Assoluto / Vacuità, è diffranta e si distingue nelle molteplici forme e colori delle sue manifestazioni. Nella pittura, come nel processo di visualizzazione di colui che medita, le divinità emergono dalla pura luce della Vacuità per essere, infine, riassorbite.
Al tempo della seconda diffusione del Buddhismo il pantheon buddhista, evocato nei testi e rappresentato nell'iconografia, aveva raggiunto in India una grande varietà indotta dai Tantra. In Tibet vi si aggiungeranno numerose divinità indigene assimilate come protettori della dottrina. Nella pratica mistica del Veicolo dei Tantra, le figure del pantheon non sono più considerate solo come oggetti di fede o di devozione. Identificandosi con loro, il meditante accede ai diversi livelli di manifestazione dell'Assoluto di cui esse sono partecipi, e di qui alle realizzazioni spirituali e/o materiali che esse consentono. Per essere efficace, la visualizzazione e l'iconografia che può farle da supporto devono quindi seguire fedelmente le descrizioni: aspetto, atteggiamento, attributi delle divinità contenute nei Tantra, che fanno parte della letteratura rivelata, e nei testi di ‘procedimenti per l’evocazione’ (sadhana) redatti dai maestri. In questi ultimi, le descrizioni possono variare sensibilmente in funzione di esperienze mistiche particolari. D'altro canto, le rappresentazioni figurate delle varie categorie del pantheon, dei Buddha, bodhisattva o divinità terrifiche, devono rispondere a moduli iconometrici specifici che fissano le loro rispettive proporzioni. Si potevano così portare gli artisti a seguire le indicazioni fornite da un maestro religioso anche quando essi non avevano accesso ai testi, come sembra essere stato il caso per la maggioranza. Più generalmente, essi si attenevano all'insegnamento orale ricevuto durante l'apprendistato, si basavano sui quaderni di modelli che avevano raccolto, o s’ispiravano ad opere esistenti.
Tuttavia, l'efficacia rituale e/o spirituale delle rappresentazioni figurate non dipende soltanto dalla loro fedeltà alle descrizioni dei testi. Essa deriva soprattutto dal fatto che questa fedeltà le rende atte a diventare il supporto nel quale la divinità prende stabilmente dimora in occasione del rituale di consacrazione. Nel corso di quest'ultimo, le statue sono riempite con un deposito di consacrazione che comprende tra l'altro ‘l’albero della vita’, un asse verticale recante iscritte delle sillabe che costituiscono l'essenza della divinità. Nel caso dei thang-ka, queste sillabe radicali sono spesso tracciate sul retro della pittura. Dopo la ‘discesa’ della divinità operata dal rituale di consacrazione, l'immagine è realmente abitata ed è trattata di conseguenza. Visitare un santuario significa letteralmente ‘incontrare’ le divinità che esso ospita. Allo stesso tempo, non bisogna dimenticare che, dal punto di vista filosofico, le innumerevoli divinità, i loro atteggiamenti sereni o infuriati, i loro volti pacifici o minacciosi, i numerosi attributi che sono altrettanti simboli, quest’esuberanza insomma, tanto sconcertante ai nostri occhi, non sono che manifestazioni apparenti, ‘abili mezzi’ in accordo con le diverse disposizioni degli esseri da convertire. Da questo punto di vista, un'immagine non riflette soltanto la natura particolare della divinità che essa rappresenta, ma rivela anche qualcosa di se stesso a chi la contempla.
Per le loro basi tecniche, le opere d’arte sacra fanno parte della ‘scienza della fabbricazione’ (so-rig), mentre la loro realizzazione entra nell'ambito più strettamente religioso della meditazione e del rituale. L'esecuzione di un'opera dovrebbe, in effetti, idealmente accompagnarsi a purificazioni, preghiere e visualizzazioni. Tuttavia, anche se dei religiosi, monaci e non, sono noti per essere stati artisti pittori o scultori, molte opere furono eseguite da laici, alcuni dei quali raccoglievano l'eredità di tradizioni familiari. Il committente forniva i materiali, e anche la sistemazione e l’alloggio se l’opera doveva essere eseguita sul posto. L'artista non poteva esigere un salario, ma era gratificato con regali in diverse tappe dell'esecuzione del lavoro. Questi doni dovevano essere sufficientemente importanti da attirare e tenere presso di sé gli artigiani più importanti, soprattutto quando questi non erano sottoposti all’autorità feudale del committente.
A parte qualche rara eccezione, l'identità di questi artisti ci è sconosciuta poiché generalmente non firmavano le loro opere. Si deve concludere, come si è già talvolta accennato, che gli artisti tibetani, prigionieri del rigoroso determinismo iconografico imposto dalla tradizione, non potevano imprimere un tratto personale alle loro opere e che, in ogni modo, essi non aspiravano che a creare figure la cui efficacia religiosa era indipendente da qualsiasi considerazione estetica. Le migliori produzioni tibetane, specialmente quelle che noi sappiamo essere state eseguite per dei committenti che avevano mezzi rilevanti, testimoniano il contrario. Pur essendo vero che l'arte tibetana, così lontana dai nostri parametri estetici occidentali può sembrare stereotipata e ripetitiva a uno sguardo superficiale, è altrettanto vero che le norme iconografiche, nella misura in cui non toccano se non le grandi linee di un'opera, non hanno mai impedito la pluralità degli stili nello spazio e nel tempo, così come non hanno mai abolito la differenza - perfettamente percepita e apprezzata dai tibetani stessi - che separa un esecutore senza immaginazione dall'artista ispirato. D'altra parte, se è evidente che la ricerca estetica non è in questo caso una finalità in se stessa, tuttavia non è nemmeno un lusso accessorio: sia che tenda ad esprimere la radiosa bellezza disadorna o sontuosa delle figure serene sia che manifesti la foga selvaggia delle divinità irate, essa partecipa intimamente all'efficacia religiosa dell'icona.


Prelati e protettori stranieri (XIII-XVI secolo)


Come stiamo vedendo, la ‘seconda propagazione’ del Buddhismo suscitò un intenso furore religioso, culturale e artistico che trasformò progressivamente il paese in profondità e segnò definitivamente il suo futuro. Ma il Tibet restava diviso in territori feudali di cui certe famiglie di signori possidenti, ricordiamolo, erano anche a capo di scuole religiose. La sua riunificazione fu imposta nel XIII secolo da una giovane potenza straniera in piena espansione, quella dei mongoli di Gengis Khan. Nel 1240 poco tempo dopo la loro conquista del regno Xixia, della Cina del Nord e dell'Asia Centrale una prima incursione devastatrice colpì il Tibet centrale. I mongoli non cercarono di amministrarlo direttamente, ma decisero di imporre il vassallaggio con la mediazione di una personalità tibetana ampiamente riconosciuta. Nel 1244 il principe mongolo Godan Khan fece venire alla sua corte Sakya Pandita (1182-1251). Quest’abate molto influente del monastero di Sakya, apparteneva ad un lignaggio dell’antica aristocrazia tibetana nella quale si trasmettevano parallelamente il potere temporale e la direzione spirituale dell'ordine religioso Sakyapa che gli era legato. Secondo la tradizione tibetana, Godan Khan, che sembra avere avuto delle tendenze religiose tanto eclettiche che pragmatiche, sarebbe stato convertito da Sakya Pandita. In ogni modo egli riconobbe in quest’ultimo l'autorità tramite la quale egli intendeva esercitare la sovranità mongola sul Tibet. Questo legame vantaggioso per entrambe le parti, che univa il casato dei Sakya e Godan Khan, non realizzò tutte le dimensioni politiche e religiose se non quando fu ripreso e istituzionalizzato da Phagpa (1235-1280) nipote e successore di Sakya Pandita, e Qubilai Khan che salì al trono imperiale della Cina nel 1260. Phagpa ricevette il titolo di Precettore imperiale (tishi) - che gli conferiva un’influenza preponderante nell'ufficio degli affari tibetani e buddhisti - e gli fu conferito il potere sul Tibet in cambio delle iniziazioni religiose date all'imperatore. I tibetani interpretarono questa relazione secondo il modello buddhista dei legami reciproci complementari che uniscono maestro religioso e protettore principesco. Tuttavia, il potere di cui fu investito Phagpa restava essenzialmente onorifico nella misura in cui esso faceva parte di una struttura amministrativa controllata dalla corte. La sua autorità temporale era accompagnata in loco da quella di un governatore generale tibetano la cui nomina doveva essere approvata dall'imperatore. Questo governatore controllava il Tibet centrale diviso in tredici distretti. Alla testa di questi si trovavano delle famiglie nobili locali i cui appannaggi dovevano essere confermati dalla corte imperiale.
Fino alla sua caduta nel 1368 la dinastia mongola degli Yuan, discendente da Qubilai continuò ad accordare la sua protezione ai Sakyapa, anche quando il proprio indebolimento non gli permise più di difendere efficacemente le loro prerogative temporali sul Tibet. Il potere Sakyapa fu, in effetti, combattuto e infine soggiogato verso il 1354 da Changchub Gyaltsen. Questo governatore di distretto apparteneva ad una famiglia nobile che si trovava anche alla testa dell'ordine religioso, dei Phagmodupa. Changchub Gyaltsen istituì il suo potere politico riorganizzando l'amministrazione territoriale del Tibet centrale. Nella sua impotenza ad intervenire, la corte mongola non poté che ratificare lo stato di fatto e dovette riconoscere il successore che Changchub Gyaltsen si era scelto nel suo proprio lignaggio, riconoscendo così la nuova supremazia dei Phagmodupa in Tibet.
Durante tutto questo periodo le strette relazioni politiche e religiose che erano state tessute tra il Tibet riunificato sotto l'egida dei Sakyapa, poi dei Phagmodupa, e la Cina degli Yuan ebbero importanti implicazioni culturali ed economiche. I monasteri tibetani beneficiarono di ricchezze e di doni considerevoli che i precettori imperiali e altre personalità, religiose o laiche ottenevano dalla corte. I signori che si trovavano a capo dei distretti, e di cui alcuni avevano legami matrimoniali con la dinastia di Sakya, patrocinarono importanti fondazioni religiose. Artigiani della corte Yuan furono invitati a lavorare nel Tibet centrale e v’introdussero nuovi motivi architettonici e artistici. A loro si affiancarono non solamente artisti tibetani, ma anche nepalesi che erano stati invitati in gran numero dai Sakyapa sia per merito della loro bravura sia per la loro vicinanza geografica. D'altra parte la protezione mongola di cui godeva il Buddhismo tibetano creò nella Cina stessa un’importante richiesta di rappresentazioni figurate e d’oggetti rituali specifici. Questa domanda fu fin dagli inizi soddisfatta da artisti tibetani e nepalesi introdotti dalle gerarchie Sakyapa, dando così origine a un'arte tibeto-cinese che avrà un grande seguito.
Nel Tibet l'influenza della pittura Yuan condizionò in maniera considerevole alcuni temi come la serie dei sedici arhat o quella dei quattro re guardiani dei punti cardinali. In altri soggetti l'influenza è limitata ad alcuni elementi come, per esempio, la stilizzazione delle nuvole, il panno morbido degli abiti e i loro disegni dei broccati, lo svolazzare delle sciarpe, certe figure di dignitari, la rappresentazione dei paesaggi, i dragoni decorativi e certi ornamenti floreali. In generale, e come si può ancora notare nel monastero di Shalu restaurato e ingrandito all'inizio del XIV secolo, le influenze cinesi, lo stile tibetano post-Pala e lo stile nepalese contemporaneo furono giustapposti piuttosto che integrati tra loro. Nate sotto l'egida dei Sakyapa, queste grandi tendenze stilistiche, dove dominavano le tradizioni indo-nepalesi, conobbero un importante accrescimento nelle costruzioni religiose successive, tra cui si deve ricordare in modo particolare il tempio e lo stupa monumentale dalle molteplici cappelle che furono costruite da un principe di Gyantse nella prima metà del XV secolo.
L`avvento della dinastia cinese dei Ming (1368-1644) non ebbe ripercussioni dirette sulla situazione politica del Tibet benché gli imperatori della nuova dinastia avessero ripreso il patronato dei prelati delle differenti scuole buddhiste tibetane e la concessione a fare investiture puramente onorifiche che non facevano che confermare uno stato di fatto su cui essi non avevano più alcuna presa.
All'inizio del XV secolo, Tsongkhapa (1357-1419) istituì la scuola Gelugpa, l'ultimo grande ordine religioso tibetano che rappresentò anche un ritorno riformatore alla tradizione di Atisha per le sue posizioni dogmatiche e l’inflessibile rispetto dei voti monastici. I Gelugpa non furono da principio particolarmente legati ad un potere politico determinato. Essi beneficiarono tuttavia della protezione dei signori della regione di Lhasa, specialmente i Phagmodupa. Dopo la morte di Tsongkhapa, la direzione del nuovo ordine passò, successivamente, a discepoli vicini. È solamente dopo il terzo di loro, Gedündub (1391 -l475) che la successione fu assicurata con il sistema della reincarnazione nella persona di Gedün-Gyamtso (1475-1542). La rapida espansione dei Gelugpa li mischiò alle lotte del potere politico che, nel contesto tibetano erano anche lotte d’influenza religiosa. Nel 1435, il governatore del distretto di Rinpung si era, in effetti, ribellato contro i Phagmodupa e aveva stabilito il suo dominio sulla provincia di Tsang nel sud-ovest del Tibet centrale. I suoi discendenti tentarono di estendere il loro territorio nella regione di Lhasa e sostennero i potenti prelati dell'ordine Karmapa nella loro ostilità al successo crescente dei Gelugpa, i cui monasteri erano in procinto di diventare i più popolati del Tibet. La nuova scuola fu ancora più minacciata quando, nel 1565, i Rinpungpa furono a loro volta soppiantati dai principi di Tsang che conservarono tuttavia le stesse ambizioni territoriali e rinforzarono ancora i legami con i Karmapa. Il capo dei Gelugpa in quel periodo, Sönam-Gyamtso, (1543-1588) si rivolse allora verso i mongoli Khalkha. Nel 1577 rispose all'invito del loro capo Altan Khan dal quale ricevette il titolo di Dalai Lama, ‘Grande Maestro’. Questo titolo fu in seguito esteso retrospettivamente ai tre predecessori di Sönam-Gyamtso. Altan Khan si convertì al Buddhismo predicato dai Gelugpa. Egli sarà progressivamente seguito dalla quasi totalità dei mongoli nello spazio di un secolo. Sönam-Gyamtso morì nel corso della sua missione in Mongolia. La sua reincarnazione, considerata come il IV Dalai Lama, fu riconosciuta nella persona del pronipote di Altan Khan, Yöntan-Gyamyso (1589-1617) il che evidentemente rinforzò i legami nascenti fra l'ordine Gelugpa e i loro protettori mongoli. Sönam-Gyamtso morì giovane quando il suo ordine era più che mai minacciato nel Tibet centrale dai principi di Tsang e dai loro alleati Karmapa. Questi disordini ricorrenti trovarono finalmente il loro epilogo nell’intervento massiccio delle armate di Gushri Khan, il capo dei mongoli Qoshot, a vantaggio dei Gelugpa. Egli battè il sovrano di Tsang e offrì formalmente il potere al V Dalai Lama (1517-1682) durante un’incoronazione che avvenne nel 1642. Questa segnò gli inizi della supremazia politico-religiosa dei Gelugpa, che doveva durare, con alterne vicende, fino al 1950.
Le vicissitudini politiche che avevano privato il Tibet centrale di un potere politico unitario a partire dal 1435, non avevano tuttavia frenato l'attività religiosa e artistica, né gli scambi con la Cina dei Ming. Le autorità religiose e laiche tibetane avevano continuato ad inviare delle missioni a corte, dissimulate come un’alleanza puramente formale da cui essi traevano, in effetti, non solamente prestigio ma anche grandi vantaggi materiali. La prima edizione stampata del corpo canonico tibetano, il Kanjur, fu realizzata a Pechino nel 1410, sotto il regno dell'imperatore Yongle. Essa era illustrata con un gran numero di scene rappresentanti le figure del pantheon nello stile tibeto-cinese ereditato dagli Yuan. Così pure, a partire da quest’epoca e fino alla caduta della dinastia, i laboratori imperiali fusero con una padronanza tecnica ammirabile un gran numero di statue sontuose in bronzo dorato realizzate nello stesso stile. Questa produzione, largamente diffusa, influenzò l'arte del Tibet centrale a partire dalla fine del XVI secolo. Nello stesso periodo, la pittura decorativa cinese contemporanea determinò il sorgere di un nuovo stile pittorico tibetano associato all'ordine Karmapa. Esso si caratterizza in particolar modo per l'importanza e la profondità nuova di un paesaggio più naturalista nel quale s’inseriscono armoniosamente le figure principali. Nel Tibet stesso la realizzazione dei thang-ka su tessuto, secondo la tecnica autoctona dell'appliquè, sembra essere soprattutto diffusa a partire dal XV secolo.


Il Tibet dei Dalai Lama (XVII-XX secolo)


Con l'ascesa al trono del V Dalai Lama nel 1642, il Tibet centrale aveva certo ritrovato la sua unità politica, ma esso la doveva, ancora una volta, all'intervento di una potenza straniera, fatto che sarà carico di conseguenze per il futuro. Se Gushri Khan aveva indubbiamente elevato la gerarchia Gelugpa ad una posizione di preminenza, le aveva pur tuttavia imposto un governatore generale per l'amministrazione civile, e non aveva nemmeno conservato per sé e per i suoi discendenti le prerogative militari unite al suo status di principe protettore della Chiesa e del paese. Inoltre, una nuova potenza espansionistica nacque in Oriente: quella dei Manciù che s’impadronirono, nel 1644, del trono imperiale cinese sotto il nome dinastico di Qing. Il V Dalai Lama si rivelò insieme un grande uomo di stato e un notevole prelato religioso. Dopo la morte di Gushri Khan nel 1655 il suo potere divenne assoluto. Lhasa, l'antica capitale dell'epoca monarchica, ridivenne la sede degli organi governativi, specialmente in seguito alla costruzione dell'imponente palazzo del Potala. La nobiltà venne a risiedere a Lhasa per esercitare il privilegio che le era stato dato di partecipare all’amministrazione governativa a fianco dei funzionari religiosi. Infine, i grandi monasteri Gelugpa vicini alla capitale videro i loro effettivi crescere di molte migliaia ciascuno, il che donò loro un peso politico importante. A sua volta la giovane dinastia dei Qing rinnovò, col nuovo potere tibetano, i legami tradizionali che erano stati mantenuti dai Ming. In più la strategia dei Qing dovette tenere conto dell'influenza religiosa considerevole di cui godevano la scuola Gelugpa e il Dalai Lama in particolare presso certe tribù potenzialmente pericolose per l'impero. Nel 1705, le vicissitudini che erano seguite alla morte del V Dalai Lama spinsero un discendente di Gushri Khan a tentare di imporre con le armi sul Tibet le prerogative temporali che egli riteneva gli fossero dovute. Quest’intervento provocò per reazione quello dei mongoli Dzungars che erano allora essi pure in lotta contro la Cina. L'imperatore reagì con vigore ed inviò un corpo d’armata che occupò Lhasa nel 1720 ed installò sul trono un VII Dalai Lama privato d’ogni potere politico. Nel 1727 dopo il fallimento di un tentativo di una forma di governo collegiale composto d’individui arruolati fra l'aristocrazia, l'imperatore riconobbe il potere del solo Pholhanas (16891747) come sovrano laico del Tibet. Tuttavia, il figlio che gli successe dopo venti anni di un regno prospero iniziò a tramare con i mongoli, il che spinse i due rappresentanti imperiali ad assassinarlo nel 1750. Una sommossa scoppiò a Lhasa ma il VII Dalai Lama riuscì a riportare l'ordine. Essendosi questo tentativo di monarchia laica a sua volta arenato, non restava all'imperatore Qianlong che riconoscere la sola autorità tibetana incontestata del momento: quella del Dalai Lama. Sotto l'egida di quest'ultimo furono allora messe a punto le istituzioni del governo teocratico che perdurarono, a grandi linee, fino al XX secolo. Due rappresentanti imperiali erano incaricati di sorvegliare il governo tibetano, di tenere l'imperatore informato e di trasmettergli le decisioni importanti per l'approvazione. I loro poteri di controllo furono rinforzati in occasione di un nuovo intervento dell'armata imperiale causato dall'invasione dei Gorkha nepalesi alla fine del XVIII secolo. Il secolo seguente fu un periodo di stagnazione durante il quale la mediocrità dei notabili dirigenti, essenzialmente occupati a preservare i loro poteri ed i loro privilegi, si adattò all’isolamento del paese voluto dai Qing e anche alla decadenza progressiva dell'impero nonostante questo offrisse opportunità di emancipazione. Alla fine di questo secolo, il Tibet fu coinvolto nella lotta fra russi e inglesi per le loro mire asiatiche alle quali la dinastia agonizzante dei Qing non poteva più opporsi. Ebbe allora la fortuna di avere a capo il XIII Dalai Lama (1876-1933) che fornì prova di grandi capacità politiche. Dopo la rivoluzione cinese del 1911, il Dalai Lama dichiarò il Tibet libero dai legami che l'avevano unito all'impero e tentò di impegnare il paese nelle riforme che la recente presa di coscienza del contesto internazionale rendevano indispensabili.
Come abbiamo visto, è sotto il regno del V Dalai Lama, nella seconda metà del XVII secolo, che si mise a punto il vasto sistema istituzionale e culturale che unificò il Tibet sotto l'autorità della scuola Gelugpa divenuta chiesa di Stato. Tanto in architettura che in arte le correnti precedenti furono integrate in una sintesi che condusse a ciò che si può considerare come il classicismo tibetano. Questo attenuerà progressivamente i particolarismi regionali o delle scuole religiose e avrà tendenza ad imporsi come uno stile eclettico: ‘panlamaico’ a partire dalle vallate himalayane del sud fino alla Siberia meridionale al nord.
Le fondazioni religiose, gli ingrandimenti e i restauri intrapresi sotto l'egida del V Dalai Lama stimolarono un’intensa attività artistica e artigianale. Il capo spirituale istituì dei laboratori governativi ai piedi del suo palazzo, il Potala. Essi raggruppavano in modo particolare degli scultori, dei bronzisti, degli orafi, di cui una gran parte era d’origine nepalese. È senza dubbio in quest’epoca che il governo istituì a Lhasa, ma probabilmente anche negli altri centri, delle corporazioni che riunivano diversi tipi d’artigiani, i quali, in quanto dipendenti diretti del governo, erano tenuti a dedicargli annualmente un determinato periodo di lavoro. Le numerose produzioni artigianali e artistiche della seconda metà del XVII e XVIII secolo - finanziate da un governo centralizzato la cui dimensione religiosa estendeva l’influenza e quindi le risorse economiche ben di là delle sue frontiere nazionali favorirono l'emergenza di uno stile tibetano arrivato a maturità. Gli artisti nepalesi continuarono ad apportare il loro contributo meno in pittura che nel lavoro del metallo: fonderie per la cera persa, oreficerie, ottonerie, ma dopo aver essi stessi assimilato le tendenze eclettiche autoctone.
In pittura il puro stile indo-nepalese è a questo punto definitivamente abbandonato, e vi è una completa assimilazione dei motivi cinesi. Il trono e l'aureola della figura principale si distaccano spesso da un fondo floreale e lo spazio si approfondisce in viste panoramiche suggerite da piani sovrapposti dove le strutture architettoniche si mescolano al paesaggio. Le composizioni tendono a divenire più fitte, con una gran ricchezza di dettagli di cui la finezza d'esecuzione sembra essere stata ispirata dalla miniatura indiana. Si trovano tuttavia anche nello stesso periodo delle composizioni molto aeree dove vasti spazi separano le scene narrative che circondano la figura centrale. Infine i dipinti a sfondo nero e altri eseguiti col contorno rosso su fondo dorato o d'oro su fondo rosso vennero allora in voga. La stampa in gran numero, per mezzo di xilografie, di disegni del formato dei ‘thang-ka’ ripresa o no dalla pittura, contribuì all'unificazione degli stili, mentre l'influenza della pittura cinese risultò particolarmente evidente nel Tibet orientale.
Nella scultura certe correnti restarono fedeli allo stile indo-nepalese con, tuttavia, un’accresciuta ricchezza negli ornamenti con dorature e incrostazioni di pietre preziose, d'argento o rame. Allo stesso tempo gli artisti del Tibet centrale tendevano a adottare lo stile tibeto-cinese delle statue prodotte in gran numero dai laboratori imperiaLi a partire dal XVIII secolo.
Gli imperatori della dinastia Qing (1644-1911) ordinarono, in effetti, sia l'edizione e la traduzione (soprattutto in mongolo e in manciù) di numerosi testi di Buddhismo tibetano sia una importante produzione di statue, di thang-ka e di oggetti rituali presso i laboratori imperiali e ai diversi monasteri e istituzioni lamaiste stabilite nella Cina stessa. Queste opere non erano destinate solamente ad uso locale, ma entravano anche, e senza dubbio, nella strategia politica adottata dai Qing rispetto a mongoli e tibetani. Esse erano inviate in dono alle fondazioni religiose così come ai prelati tibetani e mongoli in occasione di festività che scandivano le loro carriere. Questi oggetti di prestigio furono sovente realizzati con forme o materie ‘esotiche’ e secondo tecniche sconosciute presso i destinatari: brocche la cui forma ‘di airone’ è di chiara impronta iraniana, oggetti in giada, in alabastro o in cloisonné, thang-ka ricamati o in broccati di seta, ecc. Nonostante le loro grandi qualità tecniche queste opere soffrono generalmente di un sovraccarico decorativo un po' pesante.
Nel corso del XIX secolo tanto le produzioni tibetane che quelle dei laboratori imperiali furono affette da un formalismo crescente, spesso insulso e lezioso.


L'arte profana.


Contrariamente a ciò che il lettore avrebbe potuto credere fin qui, l'espressione artistica tibetana non si limitò al solo dominio religioso, anche se quello fu, e resta, la sua principale fonte d’ispirazione e la sua finalità essenziale. Pochissime testimonianze d’arte profana anteriori al XVI secolo ci sono pervenute. Noi non sappiamo in sostanza nulla degli ornamenti delle case signorili prima dell'avvento dei Dalai Lama. Il vocabolario ornamentale dell'architettura di palazzo sembra tuttavia essere stato lo stesso di quello dei templi e dei monasteri. Le sale di rappresentanza senza dubbio erano adorne di pitture a tema religioso, simili a quelle delle sale delle assemblee dei monasteri, privilegiando forse i soggetti narrativi. In ogni caso è probabile che la cappella sia stata sempre l'oggetto prioritario delle esigenze estetiche e decorative, tanto nelle dimore dell'aristocrazia, quanto nelle case rustiche. La parte più curata, e generalmente situata nelle zone alte dell'edificio, serviva anche da camera per gli ospiti di riguardo.
La ricerca estetica e ornamentale ha anche degli obiettivi più profani. I laici tibetani, soprattutto le donne ma anche i loro compagni, hanno un gusto pronunciato per gli ornamenti tanto diversi da una regione all'altra quanto generalmente sontuosi. Esse mescolano i gioielli e i reliquiari in oro, in argento o in rame alle perle e alle pietre semipreziose: turchesi, coralli, agate, infilati o fissati su supporti di stoffa rinforzata. Se gli ornamenti dell'uomo sono più sobri, certi oggetti d’utilità che egli porta addosso, specialmente il pugnale o la spada passata nella cintura, nel Tibet orientale, sono segni di prestigio o di virilità che richiedono, appena le risorse lo permettono, di essere trattati come oggetti d'arte. Questa regola si applica anche, tradizionalmente, alla bardatura e alla sella del cavallo. D'altra parte anche il lavoro artigianale può essere portato a livello d’opera d'arte nella realizzazione di certi oggetti d’utilità domestica particolarmente valorizzati dal fatto che essi sono oggetto di scambi sociali formali o in quanto indici di uno status. Questo in particolar modo nel caso dei recipienti legati al servizio del tè o della birra. Il tè preparato alla tibetana è consumato quotidianamente in grandi quantità da tutti gli strati sociali. All'infuso ottenuto dalle foglie del tè sono aggiunti del sale e del burro, poi sbattuto in un recipiente cilindrico a pistone verticale in modo da ottenere un'emulsione omogenea. Questa, in seguito, è versata in una teiera mantenuta al caldo su un braciere di ceramica o di metallo. Il tè al burro è solitamente consumato in tazze di legno o di porcellana. Può talora essere impastato con farina d'orzo abbrustolita conservata a portata di mano in scatole rotonde in legno naturale o laccato. Durante le cerimonie ufficiali o familiari o per onorare un ospite di riguardo, il tè è offerto in tazze preziose munite di supporti e di coperchi in argento finemente lavorato. Quanto alla birra d’orzo fermentato, simbolo fausto per eccellenza, essa è d'obbligo nei gesti rituali che accompagnano gli scambi sociali formali, specie nei matrimoni. Fra gli strati sociali più alti essa è, in queste occasioni, presentata in grandi brocche d'argento parzialmente dorate.
La gioielleria rustica, come gli oggetti e gli utensili metallici dei contadini sono tradizionalmente realizzati dai fabbri, lo status sociale dei quali è tenuto in poco conto nel Tibet centrale. In compenso gli oggetti d'arte d’uso profano erano realizzati o impreziositi con ornamenti dagli stessi artigiani: orefici, bronzisti, che producevano l'arte sacra. I materiali e le tecniche messi in opera sono, in effetti, identici: rame, ottone e argento a volte dorato, lavorati per mezzo di battiture, o repoussè o cesellati; ornati d’incrostazioni, di filigrana e di damascatura. Tuttavia segnaliamo l'importanza del lavoro del ferro nell'artigianato e nell'arte profana. Certi centri di produzione dell'antica provincia del Kham (sud-est del Tibet) erano particolarmente rinomati per la gran qualità tecnica e artistica della loro metallurgia. Il vocabolario decorativo degli oggetti profani è anch'esso essenzialmente lo stesso di quello dell'arte religiosa: fogliami floreali, loti aperti in boccioli, nuvole, leoni, draghi, mostri marini, uccelli mitici, gli otto segni di buon auspicio ecc. Vi si ritrovano pure anche degli echi dell'arte animalista delle steppe, soprattutto del Tibet orientale. Ciò che caratterizza senza dubbio più particolarmente l'arte profana è la sua propensione a sovrapporre materiali differenti, giocando così su contrasti di materiali e di colore, in modo particolare per mezzo di cerchiaggi di rame o d'argento finemente lavorati che si evidenziano da un fondo più grezzo di terra cotta, di ferro o di legno.
Dopo l'entrata dell'armata rossa in Tibet nel 1950, il paese ha subito importanti turbamenti politici, sociali, economici e culturali che hanno colpito profondamente le sue strutture e i suoi valori tradizionali. Sarà sicuramente una perdita irreparabile per il patrimonio che appartiene a tutta l'umanità se queste trasformazioni dovessero mettere in pericolo l'identità culturale tibetana di cui gli oggetti qui raccolti forniscono un’eloquente testimonianza.


(Fernand Paul Meyer)


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