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mercoledì 4 novembre 2009

Gli appunti di Vito Ciancimino... e non solo...

Ciancimino: "Mio padre era con Gladio"

Il figlio di Vito Ciancimino consegna vecchi appunti ai magistrati palermitani

FRANCESCO LA LICATA

Tra i documenti che Massimo Ciancimino ha consegnato alla Procura di Palermo c’è un appunto scritto dal padre, Vito, l’ex sindaco dc, che rivelerebbe la sua appartenenza alla Gladio, la rete di controspionaggio del Patto Altantico che operò in Italia dalla fine delle seconda guerra mondiale fino all’inizio degli anni Novanta, quando Giulio Andreotti (decretandone la fine perché ormai superata dai nuovi assetti dell’Europa) ne rivelò l’esistenza in Parlamento.

L’appunto manoscritto è stato consegnato ieri mattina dal figlio, insieme con una quarantina di altre “carte”, tra cui la copia originale del famigerato «papello» finora esistente, ma in fotocopia, e custodito negli archivi dei sostituti procuratori di Palermo. Il biglietto sarebbe una sorta di “rivelazione” autografa destinata all’enorme materiale politico e autobiografico che Vito Ciancimino intendeva racchiudere in una pubblicazione, mai ottenuta per il completo disinteresse che allora suscitavano le sue affermazioni. «Ho fatto parte di Gladio», scrive don Vito. E non si sa quanto di altro aggiunge nel corso del “messaggio”. Ovviamente ogni cautela è d’obbligo, quando ci si imbatte in un argomento così scivoloso. I magistrati, infatti, non si sbilanciano, almeno fino a quando non saranno in grado di valutare l’attendibilità dell’appunto e soprattutto fino a che non riusciranno a collocarlo temporalmente e nel clima di quegli anni.

Fino a questo momento ci si deve accontentare dei ricordi e delle riflessioni del figlio, Massimo. Pure il giovane Ciancimino non trae conclusioni affrettate, anche se è stato testimone di strane e lunghe frequentazioni del padre con ambienti dei servizi segreti. In questo senso fa fede tutta la vicenda legata al «papello» con le richieste di Totò Riina allo Stato e alla «trattativa» che don Vito intavolò coi carabinieri del Ros per conto di Cosa nostra. Da cosa potrebbe essere nato il “filo” tra Ciancimino e i servizi? Il mondo economico, finanziario e politico - specialmente in Sicilia - è stato sempre al centro delle attenzioni e dello sguardo lungo degli apparati di sicurezza. Ma don Vito, a quanto sembra, ne aveva dimestichezza anche per via del ruolo ricoperto dal padre, Giovanni, che durante la guerra e subito dopo era divenuto una sorta di punto di riferimento degli americani nella zona di Corleone, anche perché padrone (forse l’unico, nel territorio) della lingua inglese.

Si vedrà, comunque, se le indagini porteranno a qualcosa di concreto. Nella stessa giornata di ieri - abbastanza convulsa per il teste privilegiato Ciancimino - alla Procura di Palermo ha finalmente fatto ingresso ufficiale il «papello». Dal punto di vista del contenuto (i dodici punti di richiesta della mafia) il documento non aggiunge nulla a quanto si conosceva attraverso la fotocopia. Importanza, invece, viene data all’originale per via delle conoscenze che potranno essere acquisite attraverso le perizie già disposte. A parte quella grafica, che potrebbe portare all’identificazione dell’autore, sarà interessante accertare «l’età» del documento (attraverso l’analisi della carta) e forse anche la provenienza.

Tra le carte consegnate ieri da Massimo Ciancimino ci sarebbe pure una pagina manoscritta dedicata alla morte di Paolo Borsellino. Don Vito titola: «Post scriptum traditori», e riflette sulle tragedie di Falcone e Borsellino, a suo dire «traditi». Anche lui, don Vito, ritiene di essere vittima di tradimenti. A tradirlo, sarebbe stata la politica (non aveva gradito il lancio di volantini da un aereo con la scritta: «Meglio vivere un giorno da Borsellino che cento giorni da Ciancimino»). E alla fine immagina che Borsellino, venuto a conoscenza dei tradimenti subìti, (e «forse anche Falcone»), «se risuscitasse» non rifarebbe le cose che ha fatto.

In mattinata Massimo Ciancimino aveva reso dichiarazioni spontanee al processo d’appello che le vede condannato a cinque anni e mezzo. «Ci sono - ha detto - tante cose che non vanno nel mio processo. Tante intercettazioni, a suo tempo ritenute irrilevanti dai magistrati, contengono invece elementi a mia discolpa che, quantomeno, avrebbe potuto evitarmi l’accusa di riciclaggio. Io desidero essere giudicato per quel che ho fatto».

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