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lunedì 15 febbraio 2010

Se questo non è razzismo...

Qualcuno pensa di gettare un velo sopra la Storia, di coprire con l’indifferenza, la minimizzazione o con qualche gesto “buonista” una delle vergogne più grandi dell’Italia Repubblicana. Rosarno non è il passato, non è un semplice fatto di cronaca svanito nell’intestino di una società che smaltisce tutto in fretta, non appena i mass media ufficiali spengono i riflettori. Rosarno è a un passo da noi, lo è da prima che scoppiasse la rivolta.

È il passo finale di un percorso lunghissimo che, negli ultimi anni, ha fatto vittime, oltraggiato dignità, violentato diritti. Un percorso visibile, percepibile, che può essere perfino toccato, sentito e che, invece, qualcuno ha cercato e ancora cerca di ignorare, respingere. In questi giorni, l’Italia è stata attraversata da un ritornello diffuso, rasserenante, accolto come una certezza, come un concetto ovvio: “Il razzismo non c’entra”. Lo abbiamo sentito dire a tanti, anche a persone che sembrano valide, che appaiono oneste intellettualmente, sensibili al fenomeno immigrazione. Tutti a dire che le cause sono altre, che la colpa è di uno Stato assente, di una Regione assente, che la gente è esasperata, che ha paura, che c’è la crisi, che è solo una guerra tra poveri, perfino che la reazione violenta della popolazione di Rosarno è dovuta alla paura della ‘ndrangheta e non all’odio razziale verso i migranti. Ed è un ritornello che non è nuovo, non riguarda solo gli ultimi fatti di Calabria, ma si pone in un continuum snervante che passa attraverso molti altri casi, fatti, eventi in cui uomini e donne dalla pelle scura sono stati vittime di insulti o aggressioni. In ogni ambito, perfino in quello sportivo.

Si parla molto di Balotelli, il calciatore italiano di origine africana, dei cori subiti a Verona e in quasi ogni stadio in cui si reca. Ogni volta, si parla di questo ragazzo, del suo brutto carattere, degli atteggiamenti, delle provocazioni, come a voler giustificare le volgari ingiurie razziali che subisce da gruppi di esaltati che si spacciano per tifosi, ma che poi passano le giornate tra svastiche e saluti romani. A Balotelli fanno il verso della scimmia, intonano “buuu” tanto stupidi quanto irritanti, urlano vigliaccamente di non volere “negri italiani”. Ma questo non è razzismo, è roba da tifosi, dicono tutti, o quasi tutti. Così come non è razzista deportare in poche ore da Rosarno più di mille lavoratori migranti per sottrarli alla rabbia violenta (anche questa, ovviamente, non razzista) di uomini armati di spranghe e odio. Il ministro Maroni si è difeso dicendo che non c’è stata nessuna deportazione, ma solo la necessità di mettere al riparo gli immigrati, annunciando poi che coloro che sono stati feriti avranno lo status di protezione umanitaria, mentre gli altri “clandestini” portati nei centri verranno espulsi, ma si farà attenzione all’eventuale diritto alla richiesta d’asilo. Ovviamente Maroni si è affrettato a dire che l’Italia non è razzista. Ma perché sprecare fiato per pronunciare una tale “ovvietà”?

Avrebbe potuto dire molte cose, avrebbe potuto spiegare che chi ha subito violenze e denuncia ha comunque diritto ad un permesso e non è una concessione “buonista”, oppure avrebbe dovuto spiegare perché un governo che si vanta ogni giorno di aver messo in ginocchio la criminalità organizzata decida di risolvere la questione Rosarno allontanando i migranti, cioè i bersagli della violenza armata delle “ronde cittadine”, e dandola vinta alle ‘ndrine, tronfie per aver dimostrato ancora una volta che il territorio è in mano loro e che alla fine sono loro a vincere. Il governo ha abdicato, si è arreso. Le forze dell’ordine qualche giorno dopo hanno arrestato alcuni esponenti dei clan di Rosarno: ci è voluta una protesta di poveri disperati che non hanno dimenticato di essere Uomini per convincere lo Stato a farsi sentire sul territorio. Proprio come era avvenuto a Castel Volturno, in Campania, nel 2008. Perché Maroni non ha spiegato questo? Perché non ha voluto dire cosa si è fatto in questi anni per fermare lo sfruttamento, per sottrarre uomini e donne ad una clandestinità che è una croce terribile, una condanna disumana e inspiegabile che pesa sulla schiena di esseri umani che hanno uguale diritto di vivere su questa Terra? Ha preferito sviare. Il ministro-sceriffo, che ha voluto una legge “fabbrica-clandestini”, ha preferito nascondersi dietro una frase finale su cui la maggioranza del Paese costruisce il tetto sicuro sotto il quale riparare la propria coscienza.

Una coscienza bugiarda, ipocrita, razzista. Già, perché come vogliamo chiamare i casi sconcertanti che si sono verificati in Italia in questi ultimi anni? L’elenco è lungo, anche se prendiamo a riferimento solo il biennio 2008-2009. Oltre ai respingimenti, con l’accompagnamento nei lager libici di uomini e donne, persino donne incinte, alcune delle quali sono morte sulla banchina bollente del porto di Tripoli, ci sono stati numerosi episodi di razzismo, in diverse parti d’Italia: Emmanuel Bonsu, il giovane pestato dai Vigili Urbani a Parma; Kante, la madre ivoriana ingiustamente e illegalmente denunciata dopo aver partorito il proprio bimbo; il giovane gabonese rapinato e pestato a sangue, a Torino, da tre ragazzi italiani spacciatisi per poliziotti; la donna nigeriana insultata e schiaffeggiata a Roma da due ragazzine solo perché, sull’autobus, aveva chiesto loro di non fumare; o ancora, il diciannovenne elettricista marocchino, con regolare permesso, a cui “sono precluse le offerte di lavoro pubblicate on-line dall’Atm”, l’azienda di trasporti milanese, che, sulla base di una legge arcaica, riserva i propri posti di lavoro solo a italiani o a cittadini dell’Ue. Per non parlare poi di quelle specie di “leggi razziali” che diversi comuni del nord Italia, molti dei quali in mano alla Lega, hanno adottato nei confronti dello straniero.

Dal “White Christmas”, che prevedeva una vera e propria attività di rastrellamento per “liberare” alcuni paesini dalla presenza di uomini dalla pelle nera, in modo da garantire ai cittadini autoctoni un Natale “bianco”, passando per le proteste dell’opposizione leghista nei confronti della giunta comunale di Cortenuova (Bg), rea di aver versato un contributo di 500 euro alla famiglia di un nigeriano che da anni viveva e lavorava nel paesino per il rimpatrio della salma del congiunto, fino a giungere ai bus-galera e alla proposta di carrozze metrò solo per italiani (a Milano), alla mensa negata ai bimbi immigrati i cui genitori non possono permettersi la retta, agli annunci di case in affitto solo per italiani, ai numeri per denunciare sospetti clandestini, ecc. L’elenco è immenso, nutrito anche dagli inviti alla delazione sperimentati in molti comuni a seguito dell’introduzione del reato di clandestinità e dal clima di odio nei confronti di ogni presunta diversità. Ci vorrebbero decine di pagine per raccontare tutti gli episodi di questo tipo degli ultimi due anni. Ogni luogo sperimenta trattamenti differenti, discriminatori nei confronti di immigrati o di cittadini dalla pelle scura, divenuti il capro espiatorio di una società che non vuole guardare avanti, ma che preferisce riproporre logiche ancestrali, violente, repressive nei confronti di uomini che chiedono solo di poter vivere, lavorare, trovare riparo dopo aver vissuto e lasciato l’inferno, il dolore, la paura.

Ma questa Italia non accoglie, non solidarizza, tutta arroccata dentro la “fortezza-benessere” le cui fondamenta si reggono grazie ad un impasto di sudore e sangue che ha origini straniere, africane, asiatiche, centro e sud americane, est europee. Un impasto multietnico e multicolore, un miscuglio di storie, di sofferenze, di scommesse su un futuro che si incrocia con la speranza di ribaltare il proprio destino. Storie umane, vite concrete che non conoscono pause, sempre in movimento, sempre in lotta per disegnare il proprio domani e quello dei propri figli, eventuali o già esistenti e magari distanti chilometri. Eroi silenziosi e osteggiati, combattuti, vilipesi, odiati senza una ragione, solo sulla base di logiche oscure amplificate dall’alto, da un potere rozzo e da mass media complici, allo scopo di renderli schiavi, clandestini e invisibili nella società, ma concreti e con braccia forti nei settori produttivi che li sfruttano. Un apartheid moderno, un sistema diffuso di esclusione basato su logiche razziali: questo oggi avviene nel nostro “civile” Paese. Ovvio che l’Italia non è tutta marcia, che c’è chi sostiene, rispetta, assiste i migranti, sarebbe ingiusto vedere tutto in negativo, ma altrettanto ingiusto è avere paura della propria coscienza, avere il timore di chiamare le cose con il loro nome.

Negare il razzismo che si diffonde in ampie fasce del Paese significa nascondere la testa sotto la sabbia, significa negare sé stessi, negare il proprio progresso culturale e morale ed incanalarlo nella direzione sbagliata. Una direzione alternativa e pericolosa, che rischia di giungere ad un punto di irrimediabilità. Il razzismo esiste, è tangibile. Non ci sono zone franche, geograficamente parlando, così come sono ignobili i tentativi di giustificazione, ancor più se guidati da logiche di autodifesa campanilistica. E se il campanilismo è ancora forte in Italia, se esso rimane uno dei segni distintivi della realtà italiana, bisogna davvero preoccuparsi, perché di fronte ad un futuro inevitabilmente globale, multicolore e interculturale, queste chiusure irrazionali, se persisteranno, dovranno prima o poi autodistruggersi, sgretolarsi, facendo i conti con le proprie resistenze, con i propri choc. Forse sarebbe più indicato cominciare ad intervenire adesso, aprendo una battaglia culturale pura, costante, capillare, che porti questo Paese e la sua rappresentanza politica a prendere coscienza della propria storia e del proprio domani. Ma quanto tempo ci vorrà? E quante vittime (non numeri, ma esseri umani in carne ed ossa) bisognerà ancora sacrificare?

* Direttore del Il Megafono


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