Il 26 gennaio sono stati quattordici anni che Vincenzo Licata ci ha lasciato.
“Un gabbiano ha chiuso le ali” ebbe a scrivere il professore Enzo Porrello, suo intimo amico, allor quando venne a conoscenza del fatto che il poeta aveva migrato verso altri e, ci auguriamo, migliori lidi.
Parlare dell’eredità umana e poetica di Vincenzo Licata non è mai inutile poiché questo figlio amato di Sciacca ha reso immortale attraverso parole, ora taglianti come spade, ora raffinate come un lavoratore di gioielli, i sentimenti più nascosti e reconditi della nostra terra. Sciacca come la Sicilia, la Sicilia come Sciacca.
Vincenzo Licata non ha soltanto scritto su Sciacca ma ha vissuto tutte le dinamiche e le evoluzioni sociali e politiche della cittadina termale. Si può vivere un evento senza metterlo su carta ma non si può scrivere di un amore autentico senza averlo vissuto. Ed è proprio questo quello che ha fatto il poeta. Non è stato poeta perché ha scritto poesie ma è stato poeta perché ha amato. Ha amato di quell’amore che si incontra una sola volta nella vita, ha amato di quell’amore che annulla tutto senza opprimerlo, che lascia senza fiato pur continuando a respirare, che fa cogliere tutte le bellezze della vita anche nei momenti di malinconia e che acuisce la tristezza quando si diventa consapevoli di non poterne fare più a meno. Vincenzo Licata ha amato. Ha amato Sciacca ed ha amato soprattutto il suo mare, quell’azzurro prima vissuto attraverso le fatiche del lavoro e poi osservato con benevolo sguardo durante gli anni della senilità.
Vincenzo Licata non avrebbe mai potuto scrivere nulla se non avesse prima amato. Intelligenza sopraffina, mente arguta, spiccata originalità: sono questi gli elementi principali della sua poesia, una poesia mai banale. Semmai sono banali tutti quei lettori che non si soffermano più di tanto sulle parole utilizzate dal poeta. Mai parole fuori posto, mai parole collocate lì a caso o per caso.
Un poeta che ha saputo raccontare Sciacca meglio di chiunque altro e del quale, ancora oggi, nonostante i tanti anni già trascorsi, si sente tanto la mancanza.
“Vulissi turnari nicuzzu” recita una delle sue poesie più importanti. Voleva tornare bambino il poeta perché non si sarebbe mai voluto staccare dalla sua città e dalla bellezza del suo mare, non si sarebbe mai voluto staccare dal porto e da quella marineria che tanta fatica e tante emozioni gli aveva regalato. Voleva tornare bambino per riassaporare nuovamente i sapori di una volta, i sapori di una vita che, si rendeva conto, stava trascorrendo inesorabile. Si accorgeva che tutto stava cambiando, gli anni passavano e con essi la società diveniva diversa, forse aveva paura. Temeva che non ci fosse stato più bisogno di un poeta per le generazioni moderne, temeva la solitudine. “Sulu mi sentu pirdutu”. Dove sarebbe andato un poeta innamorato della vita come lui in questa società così veloce, che non ha tempo per nessuno, che non ha voglia di ascoltare, che non ha tempo per questi “inutili romanticismi”. Voleva tornare bambino il poeta per ritrovare i suoi vecchi compagni di scuola, per poter rifare quei giochi di una volta, per correre dietro le farfalle e provare a prenderle, per tornare ad avere carezze e baci, e quelle storie raccontate dalla nonna, così verosimili da sembrare vere.
Vincenzo Licata è stato un uomo prima che un poeta, un uomo che, a volte, temeva di non venire capito e si rifugiava nel suo mondo, sicuramente molto più fatato di quello reale. Tutto sommato è stato un uomo fortunato però. Non è da tutti avere infatti due coppie di genitori. Oltre a quelli naturali, Sciacca gli ha fatto da madre ed il Mare invece da padre. E come si sa, non si può scegliere né dove nascere e né da chi nascere. Tanto ha ricevuto quanto ha dato.
“Vulissi turnari nicuzzu – durmennu a me matri abbrazzatu – pi senticci ancora cantari: – mi dormi lu figghiu aduratu”. Il motivo della famiglia che ritorna in tante delle sue liriche e con esso, in questo caso, quello dell’affetto, un affetto cullato da una dolce ninna nanna. Voleva tornare tra le braccia di sua madre per sentirsi amato, protetto e meno solo. Voleva restare nell’abbraccio di Sciacca per mai dimenticare i suoi profumi e le sue speranze. Ma poi la conclusione, il ritorno alla realtà, l’amarezza dello sfiorire di tutte le cose, l’amore che passa e trasforma tutto in un sogno vano: “Ma no, lu passatu nun torna – un sonnu ducissimu fu – virranno filici li jorna, - ma chiddi nun tornanu cchiù!
Cos’altro aggiungere. A distanza di quattordici anni le parole del poeta Licata si dimostrano fresche e nuove come il primo giorno. Non a caso l’anno scorso è stato intitolato al poeta un Premio nazionale di Letteratura e Poesia organizzato dall’associazione di promozione sociale L’AltraSciacca che ne ha rinverdito ancora di più la memoria.
A quanti lo hanno amato, a quanti lo hanno conosciuto di persona o attraverso le sue poesie, a quanti ne hanno apprezzato l’umanità, agli amici ed ai parenti, rimane un patrimonio ed un’eredità incalcolabile. Una ricchezza non costruita sulle banconote ma sull’unico bene immortale della nostra esistenza: l’amore.
Io non ho avuto la possibilità di conoscerlo personalmente ma di una cosa sono sicuro: il gabbiano Licata non ha chiuso le ali. Attraverso le sue poesie continua a volare. Oltre l’orizzonte.
Calogero Parlapiano - tratto da "Controvoce"
martedì 2 febbraio 2010
Sciacca. Vincenzo Licata: il Poeta del Mare
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