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sabato 15 gennaio 2011

2010, un anno di mafia. La relazione della DIA e gli arresti eccellenti

Si chiude un anno che ha registrato importanti successi nella lotta alla mafia con gli arresti di Falsone e Messina. La relazione della DIA però descrive una provincia di Agrigento ancora sotto scacco e con una minaccia in più: le pesanti infiltrazioni della mafia negli appalti pubblici. L’Operazione Family a Castrofilippo ne è stato soltanto un esempio

“Cosa nostra agrigentina, pur se duramente colpita, negli ultimi anni, da importanti operazioni di polizia scaturite anche dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, è riuscita a mantenere una forte influenza sul territorio, confermando la dislocazione dei mandamenti mafiosi esistenti nella provincia di Agrigento, che risultano essere quelli di Porto Empedocle, di Casteltermini, della Quisquina, di Ravanusa, di Sambuca di Sicilia, di Sciacca e di Ribera.
Allo stato attuale, dalle varie risultanze investigative emerge che il rappresentante provinciale dell’organizzazione mafiosa riconducibile a cosa nostra, fino al momento del suo recentissimo arresto, è stato il latitante Giuseppe Falsone, succeduto a Maurizio Di Gati, in atto collaboratore di giustizia.
Con l’arresto di Falsone, avvenuto a Marsiglia il 25 giugno scorso, nell’ambito di una collaborazione tra la Polizia italiana e quella francese, il soggetto libero di maggiore caratura criminale, che, verosimilmente, poteva assumere la reggenza della provincia mafiosa, era il latitante Gerlandino Messina, ma anche lui è stato tratto in arresto lo scorso novembre a Favara, dopo una latitanza ultradecennale.
Appare significativa la cattura all’estero di un soggetto di elevata caratura mafiosa, quale il Falsone, poiché tale circostanza interrompe lo stereotipo comportamentale che sembrava “esigere” la presenza sul territorio siciliano dei capi latitanti che intendessero mantenere una reale leadership.
Sono stati conseguiti dunque importanti risultati anche nella cattura di altri soggetti latitanti, a seguito di indagini di ampio respiro sul tessuto mafioso, che hanno prodotto effetti di ancora più profonda disarticolazione dei sodalizi, come avvenuto il 26 marzo, allorquando i Carabinieri del Reparto Operativo del Comando Provinciale di Agrigento e del Nucleo Operativo del Ecologico di Palermo, hanno dato esecuzione ad un provvedimento cautelare nei confronti di Pino Gambino, ritenuto di essere il capo della famiglia mafiosa di Ravanusa e capo mandamento di Campobello di Licata.
Nello stesso contesto investigativo sono stati arrestati altri 7 soggetti, tutti presunti fedelissimi di Giuseppe Falsone.
L’operazione, denominata “Apocalisse”, che ha colpito l’organizzazione mafiosa operante nei territori di Campobello di Licata, Canicattì e Ravanusa, ha nuovamente evidenziato l’incontrastato ruolo verticistico nella provincia di Agrigento al tempo rivestito da Giuseppe Falsone.
I riscontri investigativi di questa operazione hanno dettagliato l’interesse di cosa nostra agrigentina verso i settori della grande distribuzione e dello smaltimento dei rifiuti e i rapporti di contiguità dell’esponente mafioso con noti imprenditori locali, realizzatisi attraverso la gestione di appalti riguardanti soprattutto la progettazione, la realizzazione e la gestione della discarica di Campobello di Licata, nonché la progettazione e la realizzazione del punto vendita Eurospin di quella località.
Si è assodato che il Falsone aveva avuto un ruolo fondamentale nella scelta del sito, nonché nella gestione operativa della citata discarica, traendo annualmente, con la connivenza di imprenditori e di pubblici amministratori, ingenti guadagni, anche a scapito della salvaguardia dell’ambiente e della salute dei cittadini, così come accertato nel corso delle attività investigative e degli accertamenti di caratteri ispettivo.
L’attiva compartecipazione di Giuseppe Falsone nella gestione della discarica di Campobello di Licata è stata confermata da una serie di approfondimenti su parte del materiale sequestrato in passato, in una abitazione dislocata nelle campagne fra Cianciana (AG) e Palazzo Adriano (PA) ed utilizzata come rifugio dal capomafia agrigentino prima del suo arresto. Infatti, tra le carte sequestrate, sono stati rinvenuti alcuni documenti contabili. riconducibili alla gestione finanziaria della discarica. Varie risultanze processuali hanno confermato, ancora una volta, che, tra le principali attività delle famiglie mafiose, occupa un posto di rilievo la riscossione del pizzo da imprenditori e commercianti.
Queste considerazioni illuminano uno spettro di delittuosità mafiosa assai vasto, che si muove dalle attività predatorie classiche, per giungere fino alla gestione diretta di attività commerciali, specie nei settori della grande distribuzione alimentare, dello smaltimento dei rifiuti, della costruzione di manufatti edilizi e della fornitura di calcestruzzo e di materiali inerti.
Per meglio comprendere la delittuosità complessiva dei soggetti mafiosi nella provincia, la D.I.A. ha elaborato le informazioni storiche SDI, sul conto di 48 soggetti segnalati dai locali uffici di polizia, nel periodo tra il 1° giugno 2009 e il 31 maggio 2010. Si percepisce così che i delitti-strumento riferibili alla storia criminale di tale popolazione attengono essenzialmente al circuito estorsivo, alle rapine, all’associazione a delinquere, ma anche, significativamente, alla turbata libertà degli incanti, al trasferimento fraudolento di valori ed ai reati in materia di stupefacenti. Nel contesto, sia pure in modo residuale, si affaccia all’usura.
A tutto ciò si connette l’interesse dell’organizzazione criminale verso gli appalti pubblici che, come noto, rappresentano un collaudato sistema di appropriazione indebita di risorse pubbliche, essendo stato riscontrato, da diverse attività d’indagine, che i sodalizi locali pretendono, a titolo estorsivo, il 2% dell’importo complessivo del valore della gara aggiudicata. L’organizzazione mafiosa agrigentina, a seguito dell’impatto di significative misure di prevenzione patrimoniali irrogate nei confronti dei suoi esponenti, sta attraversando un serio momento di difficoltà, poiché vengono attinte consistenze di rilievo, sopravvissute anche agli esiti di precedenti indagini giudiziarie.
Paradigmatica è la vicenda di due fratelli, imprenditori del settore oleario, originari di Racalmuto (AG), a cui carico, il 23 febbraio ed il 14 aprile, la D.I.A. esperiva un sequestro dei beni per un valore complessivo di circa 52 milioni di euro.
L’8 giugno scorso, sempre la D.I.A. nel prosieguo delle indagini, metteva a segno ulteriori operazioni di sequestro di altri beni riconducibili ai familiari dei propositi, che riguardava sette polizze vita per un valore complessivo di 230.000,00 euro.
I fratelli erano stati arrestati nel 2007, nell’ambito dell’operazione “Domino 2” , ed erano stati condannati alla pena dell’ergastolo nel 2009, dalla Corte d’Assise di Agrigento, per l’omicidio di Mariano Mancuso avvenuto ad Aragona (AG) nel 1992 (condanna poi confermata in appello).
In sede processuale, era stata dimostrata la valenza criminale dei fratelli, nonché i loro stretti rapporti con i capi mafia pro tempore della provincia agrigentina Salvatore Fragapane, Giuseppe Fanara e Maurizio Di Gati, ai quali i citati imprenditori si rivolgevano per dirimere le controversie susseguenti alla loro attività di usurai, fino a spingersi ad ottenere la soppressione violenta del Mancuso che si era rifiutato di restituire il denaro avuto in prestito. E’ stato acclarato che lo stesso Fragapane aveva investito denaro di cosa nostra nell’illecita attività posta in essere dai due proposti, che grazie all’appoggio incondizionato dell’organizzazione, erano così riusciti ad incrementare il patrimonio personale. Gli elementi di conoscenza ricavabili dalle fonti probatorie, relativamente alla frequenza ed intensità dei rapporti intercorrenti tra i due fratelli ed esponenti di spicco dell’associazione mafiosa, così come il loro attivismo nell’usura, hanno fatto ritenere che l’ingente patrimonio sequestrato sia il frutto del reimpiego dei capitali illeciti acquisiti nel corso degli anni da cosa nostra agrigentina in attività illecite od apparentemente lecite.
Nell’ambito della penetrazione mafiosa negli appalti pubblici la D.I.A., nel prosieguo dell’indagine “Minoa”, che aveva portato alla disarticolazione della famiglia mafiosa di Cattolica Eraclea e quella di Montallegro, ha concluso le operazioni di sequestro preventivo di quote societarie e beni aziendali di una società operante nel settore edile, riconducibile ad uno dei soggetti, arrestato nel mese di novembre del 2009 a seguito della citata operazione di polizia.
Per quanto attiene ai danneggiamenti, va sottolineato che continua a registrarsi la consumazione di atti intimidatori nei confronti della società “Dedalo Ambiente”, che si concretizzano con l’incendio dei cassonetti, con conseguente e considerevole danno economico. Analoghi danneggiamenti sono subiti anche da altre società che si interessano dello smaltimento dei rifiuti.
Il fenomeno usurario costituisce uno dei più recenti settori dell’economia criminale, che vede l’impiego di cosa nostra agrigentina.
La debolezza delle imprese agrigentine, incapaci di resistere alla crisi dei settori produttivi, lascia al tessuto mafioso la capacità di accreditarsi, di mettete in circolo il denaro frutto di attività illecite e, alla fine, di entrare in possesso delle aziende, una volta catturate all’interno dei percorsi usurari.
Infatti, il protrarsi della crisi economica ha accresciuto l’esposizione di piccole e medie imprese in crisi di liquidità a derive usuraie e predatorie, che vengono sempre più praticate dalla componente mafiosa.
L’aiuto dell’incidenza del fenomeno è significativo e si registrano, in particolare, casi nei comuni di Porto Empedocle, Agrigento e Canicattì.”
Tutto questo in attesa di capire quando e come possa essere assicurato alla giustizia Matteo Messina Denaro, l’ultimo superlatitante, consapevoli del fatto però che la criminalità organizzata, come un cancro, si è ramificata in diversi aspetti della vita pubblica isolana e nazionale ed estirparla non dipende dalla cattura o meno di un solo uomo ma da un’autentica rivoluzione culturale che possa permettere alla società di scrollarsi di dosso la mafia, anzi le mafie. Fino a quando ci saranno casi isolati di coraggio, di ribellione, di voglia di cambiare le cose e non una presa di coscienza generale, fino a quel momento rimarranno valide le parole del giornalista Pippo Fava ucciso dalla mafia il 5 gennaio del 1984 a Catania perché aveva scoperto e scritto troppo: “Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce. Una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…”
Trovarono sia il mezzo milione che il ragazzotto qualunque.

Calogero Parlapiano - tratto da "Controvoce"

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