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venerdì 22 ottobre 2010

Il rischio d'isolamento che corrono i Giusti

Ormai sono passati più di 18 anni dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quando si ricordano persone come loro, tutti si inchinano, si tolgono il cappello, bofonchiano parole di ammirazione e di dolore. “Sono stati ammazzati dalla mafia. Sono eroi“.

Improvvisamente, di fronte alla morte per mano della mafia, nessuno si azzarda più a criticare quei morti. Tutti eroi, tutti servitori dello Stato, tutti eccellenti lavoratori. Nessuna voce fuori dal coro. E ai giovani del presente e del futuro la storia sarà descritta così. Erano tutti al fianco e sostenitori di quegli eroi italiani.

Peccato che ci si dimentichi sempre di raccontare il resto, di completare la storia. Peccato che quegli eroi, fino al giorno prima di morire, non erano così tanto eroi. O meglio, lo erano agli occhi del popolo, della gente comune, ma per troppi uomini delle Istituzioni le cose stavano diversamente.
“Quando muoiono questi uomini diventano immortali, prima per molti erano soltanto delle carogne".

A pronunciare queste parole Antonino Palmeri, Presidente del Tribunale di Palermo, pochi giorni dopo la strage di via d’Amelio.
Perché in realtà questi “eroi” non erano poi così tanto amati da molti uomini al potere, che fossero politici, magistrati, Csm o chiunque altro. Falcone e Borsellino (come tanti altri eroi prima e dopo di loro) hanno impegnato gli ultimi anni della loro vita sempre su due fronti: da un lato la lotta alla criminalità organizzata e dall’altro la propria difesa contro le delegittimazioni provenienti sia dall’esterno che soprattutto dall’interno delle Istituzioni.
“Farabutti, me li stanno ammazzando tutti sotto gli occhi. E noi assistiamo impotenti. Stanno facendo fuori gli uomini del pool dopo averli delegittimati. Un massacro prima giuridico, poi formale e adesso anche fisico“, continuò il dottor Palmeri, rabbia e dolore a fargli pronunciare quelle parole da troppi suoi colleghi sentite fortemente.

Lo stesso Borsellino l’aveva capito e l’aveva esternato alla moglie Agnese: “Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”. Tre settimane prima di morire Paolo ringraziò l’opinione pubblica per aver fatto “il miracolo”, ossia per aver fatto fare marcia indietro al Csm che nel 1988 voleva sbarazzarsi del pool antimafia e che invece, grazie alla spinta della società civile, rimase in piedi.

Lo sanno tutti, gli adulti, ma ai ragazzi si continua a dire delle mezze verità. Falcone e Borsellino non sono stati uccisi solo dalla Mafia. Sono stati uccisi anche dalla delegittimazione, dall’isolamento. Ai ragazzi vengono sempre ricordate le lacrime di dolore dopo la loro morte. Raramente si ricordano le lacrime di rabbia. Perché la rabbia ha sempre un destinatario.
Lo Stato ha “vanificato l’operato dei giudici“, ha “irresponsabilmente” delegato loro ogni forma di lotta alla criminalità mafiosa “senza dotarla di idonei strumenti legislativi e materiali“, fino all’ “ennesima strage mafiosa annunciata, espressione della completa disfatta dello Stato. Uno Stato che è in balia di gruppi di potere ispirati da logiche affaristico-clientelari, perennemente sordo alle ripetute e accorte invocazioni di risveglio e di concreto intervento“. Uno Stato che quindi non si può aspettare nulla “da una magistratura decimata nei suoi uomini migliori e avvilita in un clima di continua attesa mortale“.
Queste le parole contenute nel documento di protesta redatto dai magistrati a Palermo due giorni dopo l’uccisione di Paolo Borsellino.

Ed ora, dopo 18 anni e dopo il sacrificio dei tanti eroi morti, tutto sta tornando uguale. Non appena i ricordi della memoria iniziano ad offuscarsi, le serpi tornano a strisciare, gli eventi tornano a ripetersi. Oggi, a Palermo, al posto di Falcone e Borsellino ci troviamo Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo. Il primo il pupillo di Paolo Borsellino, il secondo cresciuto nell’esempio di quei due magistrati, ai quali si è sempre ispirato.
Ricordatevi questi nomi, ragazzi. Perché sono i nomi di due dei pochi magistrati che ancora hanno impresso a fuoco nella loro mente l’articolo 3 della Costituzione Italiana, che ancora hanno la forza e il coraggio di sdegnarsi per il massacro che sta subendo la giustizia italiana. I nomi delle persone che quindi vanno delegittimate. Perché putroppo la storia, per chi dimentica, si ripete.

“Il ministero chiede accertamenti per le dichiarazioni del sostituto procuratore Nino Di Matteo”, titolava l’otto di ottobre l’Espresso. Dichiarazioni a quanto pare poco gradite al potere: “Continua la sistematica e violenta offensiva di denigrazione e isolamento di quei magistrati che credono ancora nel principio dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Noi resisteremo perché crediamo nella Costituzione sulla quale abbiamo giurato. Con quale faccia si collabora con questo governo?”

In seguito all’assassinio di Borsellino il clima nelle stanze blindate della procura di Palermo era teso, pieno di rabbia, di sfiducia, di dolore. Si parlava di dimissioni di massa dei giudici, per dare un segnale forte.
Vittorio Teresi fu chiarissimo, allontanandosi dai giornalisti e preannunciando le sue dimissioni: “Volevo andar via, ma dopo Falcone sono rimasto, ho detto a Borsellino: metto la mia vita nelle tue mani, ma battiamo la mafia. Adesso basta, mi accorgo che non serve a nulla combattere. Qui si muore per nulla”.

Eppure, in mezzo a tutto quel dolore, rimaneva ancora un po’ di speranza, negli occhi lucidi del sostituto Antonio Ingroia che sussurrò al collega De Francisci: “non possiamo andar via proprio adesso, non possiamo”.
Bene, Antonio Ingroia è rimasto. Come Antonino Di Matteo. E come loro altri giudici con nomi forse meno ricorrenti nelle cronache giudiziarie ma ugualmente impegnati.

La delegittimazione non è pericolosa solamente per l’isolamento “istituzionale” che ne consegue. E’ pericolosa anche per l’isolamento “emotivo” che questi giudici sono condannati a subire. Quando Falcone e Borsellino avevano tutti contro, Mafia e pezzi delle Istituzioni, l’unica spinta che avevano, allo stremo delle forze fisiche e mentali, era la società civile. “La gente fa il tifo per noi”, diceva Falcone sorridendo.

Con le Agende Rosse stiamo preparando una giornata a sostegno di Antonino Di Matteo. Faremo in modo di farla al nord, al centro e al sud Italia contemporaneamente, proprio per dare la possibilità a tutti di partecipare. E saremo pronti a scendere davanti ciascun tribunale d’Italia ogni qual volta chi indegnamente occupa le Istituzioni si azzardi a delegittimare uno di questi giudici con un’azione così mirata.

Forse non possiamo proteggere questi magistrati dalla Mafia, forse non possiamo proteggerli da chi abusa per meschini interessi delle Istituzioni, ma sicuramente possiamo proteggerli dall’isolamento.
www.19luglio1992.com

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