La notizia è di qualche giorno fa ma le reazioni all’interno della famiglia mafiosa sono ancora tutte da valutare. Il ministro della Giustizia, l’agrigentino Angelino Alfano ha firmato cinque decreti di prima applicazione del regime di carcere duro 41 bis nei confronti di altrettanti presunti esponenti di Cosa Nostra. Si tratta di Francesco e Giuseppe Capizzi, ritenuti appartenenti alla famiglia mafiosa di Ribera, Accursio Dimino, presunto affiliato della famiglia Sciacca, Salvatore Imbornone, della famiglia di Lucca Sicula e Gino Guzzo, ritenuto esponente del clan di Montevago. In questo modo - si sottolinea in ambienti del ministero della Giustizia - è stato inferto un duro colpo alla mafia agrigentina. Carcere duro dunque per cinque degli arrestati e condannati in merito all’operazione denominata “Scacco Matto” condotta dalla Dda di Palermo contro le cosche dell’Agrigentino, tra Sciacca, Ribera e la Valle del Belice. Come si ricorderà la pena più alta era stata inflitta a Gino Guzzo, di Montevago, ritenuto il reggente della famiglia mafiosa del Belice, condannato a 21 anni di reclusione mentre Francesco Capizzi era stato condannato a 12 anni. Undici anni e 4 mesi invece la pena per Accursio Dimino, di Sciacca, e Salvatore Imbornone, di Lucca Sicula. Lo Stato c’è quindi e vuole dare l’impressione, anche attraverso questi provvedimenti, di avere in pugno la situazione. Su tutto il territorio siciliano il lavoro degli inquirenti e delle forze dell’ordine è costante e massiccio, e dipana via via una fitta ragnatela di affari ai quali partecipano un po’ tutti, specie i cosiddetti “colletti bianchi”, professionisti insospettabili, lontani dall’antiquato stereotipo del mafioso dedito alla fuga ed agli omicidi.
Ultimamente per esempio, i carabinieri del Comando Provinciale di Palermo hanno arrestato tre persone appartenenti al mandamento mafioso del clan Resuttana. I boss sono accusati a vario titolo di "associazione per delinquere di tipo mafioso finalizzata alle estorsioni". All'individuazione dell'attuale reggente del mandamento e a due suoi fedelissimi si è giunti anche grazie alle dichiarazioni di un nuovo collaboratore di giustizia. I militari hanno eseguito anche delle perquisizioni domiciliari per ritrovare l'arsenale militare della cosca.
Tra i colletti bianchi l’ultimo caso in ordine di tempo è quello dell’architetto palermitano Liga, accusato di essere l’erede dei boss Lo Piccolo, arrestati anni fa. Dopo mesi di indagini, pedinamenti ed intercettazioni, la Guardia di Finanza ha arrestato a Palermo il 59enne Giuseppe Liga, presunto successore dei boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo.
Liga era soprannominato “l’architetto“, nome indicato in alcuni pizzini sequestrati al momento dell’arresto dei Lo Piccolo e recentemente confermato da quattro pentiti, Isidoro Cracolici, Francesco Franzese, Gaspare Pulizzi e Marcello Trapani.
Alla fine, grazie ad intercettazioni e pedinamenti, la sua identità è stata confermata: Liga, reggente regionale del Movimento cristiano lavoratori, avrebbe portato avanti gli affari dei boss, storici capimafia di Tommaso Natale, il clan più importante del capoluogo siciliano.
Le accuse mosse nei suoi confronti sono associazione mafiosa, estorsione e fittizia intestazione di beni. Insieme a lui sono finiti in manette Giovanni Angelo Mannino, 57 anni, Agostino Carollo, 45 anni, e Amedeo Sorvillo, 57.
Questi ultimi due sono due imprenditori di Palermo che avrebbero fatto da prestanome per una società di Liga, la “Eu.Te.Co“, Euro Tecnica delle Costruzioni.
Le indagini hanno accertato che nel periodo in cui l’indagato aveva acquisito il ruolo di reggente del mandamento di Tommaso Natale-San Lorenzo, Liga non ha trascurato il suo impegno politico pubblico con il Movimento cristiano dei lavoratori, dimostrando così la capacità di infiltrazione dell’organizzazione mafiosa nelle istituzioni.
Gli agenti hanno anche sequestrato diversi computer e numerosi documenti appartenenti a Liga, materiale attualmente al vaglio degli inquirenti.
In provincia di Agrigento invece la lotta più serrata all’interno delle cosche è quella per accertare chi è il più forte, il più influente, il più temuto dalla gente e dagli stessi mafiosi. Tutto è, o sembra essere, subordinato ai voleri del superlatitante Matteo Messina Denaro, la cui influenza travalica qualsiasi confine provinciale. Si parla sempre di pizzo e appalti nelle deposizioni più importanti fornite da Calogero Rizzuto e Maurizio Di Gati, due tra gli ultimi collaboratori di giustizia. A quanto pare Messina Denaro voleva eliminare dalla scena i Capizzi a causa di alcune divergenze nella gestione della criminalità in provincia. Anche la presenza di altri importanti esponenti della malavita mafiosa siciliana non facilita i rapporti tra le cosche, basti pensare all’attività di altri due latitanti: il cattolicese Giuseppe Falsone ed il favarese Gerlandino Messina. In ballo c’è anche la cosiddetta guerra dei supermercati: la costruzione, l’”affidamento”, il pizzo, in una lotta senza esclusioni di colpi. Perché la famigghia mafiosa non è così unita come può apparire dal di fuori. Le lotte per il potere sono all’ordine del giorno e le prime donne sono pronte a qualsiasi bassezza pur di scalare la vetta del potere criminale. Non sono rari i casi infatti di mafiosi che pagano il pizzo ad altri mafiosi. E’ tutta una questione di rispetto, di avere maggiore o minore influenza sugli altri e di potere. Un potere, simbolico, economico, sociale, per il quale si farebbe tutto ed il contrario di tutto. Perché per alcuni è proprio vero che “cumannari è megghiu ca futtiri”.
Calogero Parlapiano - tratto da "Controvoce"
martedì 20 aprile 2010
Mafia e Poteri Forti. Tra indagini e lotte intestine
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